La partecipazione al voto
di Antonio Floridia
Puntualmente, ad ogni occasione elettorale in cui si registra una caduta dei livelli di partecipazione, si alzano alte grida di allarme e preoccupazione, che tuttavia vengono ben presto archiviate e rimangono prive di una qualche reale conseguenza. E, soprattutto, spesso mancano delle reali analisi sulle cause del fenomeno, rifugiandosi piuttosto ad una serie di luoghi comuni sempre meno significativi (la “disaffezione”, il “distacco”, ecc.).
In realtà, i fattori che agiscono sulle motivazioni del voto, così come quelle del non-voto, sono molto complesse: vi agiscono elementi “sistemici” (i caratteri generali del sistema politico, il sistema dei partiti, le leggi elettorali, le “fratture” (cleavages) politico-sociali e territoriali, che dividono una comunità politica; ma anche fattori più contingenti (la struttura specifica del contesto in cui si svolge la competizione: le condizioni dell’economia, la rilevanza dei temi al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica, il “posizionamento” dei partiti rispetto a questi temi “salienti”, l’immagine del leader rispetto ad esse).
Ma esistono anche fattori legati ad una dimensione “micro”, cioè propri del singolo elettore, e qui entrano in gioco la cultura politica degli individui; la lor collocazione sociale (o la percezione della propria posizione sociale), la socializzazione politica (ad esempio, le tradizioni familiari di appartenenza politica), i valori in cui questo singolo elettore si riconosce, la cultura politica dominante in un dato territorio; e anche qui, fattori più “contingenti” (quanto e come un elettore è stato coinvolto dalla campagna elettorale, come ha interagito con le sue reti di relazioni sociali).
Tutti questi elementi sono stati ampiamente trattati dalla scienza e dalla teoria politica come fattori esplicativi delle motivazioni del voto: ma possono anche essere lette in senso inverso, come ragioni che spiegano il non-voto. In questa sede possiamo fare solo alcuni esempi.
a) Il sistema dei partiti. Una spiegazione largamente diffusa, divenuta oramai un luogo comune piuttosto stucchevole, vede l’astensionismo come “rifiuto” dei partiti, come “distacco”, come disaffezione. Credo che si debba rovesciare la logica causale: proprio perché non ci sono più partiti degni di questo nome, aumenta la distanza del singolo elettore, si perdono radicamento e identificazione. In passato, (in Italia, possiamo dire, fino alla fine degli anni Ottanta), l’esistenza di partiti forti e strutturati era anche un fattore che mobilitava l’elettorato e favoriva la partecipazione. Basta ricordare, e chi ha una certa età lo sa benissimo, come in particolare i grandi partiti di massa avessero una capacità capillare di contatto con i propri elettori, attraverso una molteplicità di canali, diretti e indiretti. I partiti, nel loro sforzo di mobilitazione, parlavano e raggiungevano, e spingevano alle urne anche gli elettori meno interessati alla politica. Possiamo dunque enunciare una sorta di teorema: tanto più destrutturato e fragile è il sistema dei partiti, tanto più è probabile che cresca la propensione astensionista di tutti quegli elettori che possiamo definire “marginali”, poco coinvolti, “lasciati soli”, privi di una significativa rete di relazioni sociali.
b) Le leggi elettorali. Non possiamo in questa sede addentrarci nella vasta letteratura internazionale che ha svolto e svolge analisi comparate sulla relazione tra i sistemi elettorali e i livelli di astensionismo. Per quanto riguarda l’Italia, possiamo però affermare, senza tema di essere smentiti, che uno dei fattori strutturali che hanno nel corso del tempo incrementato il livello di astensionismo può essere ricondotto all’affermarsi di sistemi elettorali di tipo maggioritario.
Sono note le caratteristiche dei sistemi elettorali che si sono succeduti in Italia, e non occorre qui richiamarli; tuttavia, l’elezione diretta dei sindaci e poi dei presidenti delle Regioni hanno dato un colpo decisivo all’abbattimento dei livelli di partecipazione. Può sembrare contro-intuitivo, e molti ancora si attardano a chiedersi: “ma perché vota così poca gente per il sindaco? Eppure sarebbe la carica più vicina ai cittadini!”. Quello che sfugge è che proprio la personalizzazione della competizione, ma poi anche la logica stessa delle coalizioni costruite attorno ai candidati (tante più liste di sostegno, tanti più candidati consiglieri sguinzagliati in cerca di preferenze, quanti più voti “trascinati” verso il candidato), questa forma della competizione (personalizzazione più frammentazione dell’offerta) e la crescente irrilevanza politica delle rappresentanze consiliari, di fatto circoscrivono e limitano l’ambito delle possibili opzioni e quindi, per una parte degli elettori, finiscono per costituire un incentivo alla diserzione, perché “non ci si riconosce” nell’offerta presentata. Appare poi veramente grottesco che ci si lamenti della “fuga” dalle urne in occasione dei ballottaggi: fenomeno diffusissimo e scontato, giacché quando tutto si riduce ad una scelta binaria, chi aveva fatto altre scelte al primo turno non sempre si mostra interessato a far prevalere il “meno peggio”.
Il differenziarsi dei sistemi elettorali, insieme al venir meno di forti identità politico-culturali, spiega anche il crescente divario tra i livelli di partecipazione ai vari tipi di elezione. I meccanismi di identificazione e di appartenenza si indeboliscono sempre più, fino a svanire, e quindi la scelta di voto è sempre più condizionata dalla percezione del valore della posta in gioco, dal livello di mobilitazione che i soggetti politici riescono a sollecitare, dall’attenzione dei mass-media, dall’incertezza sul risultato e dalla conseguente percezione che forse qualcosa può dipendere anche dal voto del singolo elettore.
c) La dimensione e la collocazione sociale. E’ una variabile cruciale: fino a che i partiti di massa erano in grado di “parlare” e di rivolgersi anche agli strati più deboli e “periferici” della società (“periferici” sia in senso economico-sociale che in senso territoriale), si riusciva a tenere elevato il livello di partecipazione. Questo accade sempre meno: la competizione tende a svolgersi intorno alla conquista di strati sociali “centrali”, facilmente raggiungibili: molto meno interessante e molto più “faticosa” la conquista di quegli strati sociali che sono “marginali”, di quei cittadini soli e atomizzati, a cui nessuno più si rivolge per chiedere il loro voto, o cercare di convincerli. A tutto ciò si aggiunga la dimensione demografica: l’invecchiamento della popolazione e soprattutto l’incidenza di anziani privi di legami sociali, senza reti sociali di protezione, è un fattore che certamente contribuisce ai più bassi livelli di partecipazione.
Si potrebbe continuare a lungo in questo esame; tuttavia, è evidente come non ci troviamo di fronte ad un astensionismo elettorale che possa essere interpretato univocamente come il segno di un “distacco” dei cittadini dalla politica o dai partiti. O semplicemente come una “crisi della democrazia”. Per capire (e anche contrastare il fenomeno) occorre piuttosto parlare di un astensionismo intermittente e asimmetrico.
“Intermittente”, perché non c’è una flessione continua e lineare della partecipazione, ci sono anche casi in cui il numero dei votanti cresce o si stabilizza, e questo per una serie di possibili cause che possono anche combinarsi tra loro e rafforzarsi: si vota quando si percepisce che la posta in gioco è elevata, o quando la competizione appare incerta. O, al contrario, si vota molto meno se l’esito appare scontato. “Asimmetrico”, perché l’astensione non “colpisce” sempre e nella stessa misura tutte le aree politiche; anzi, sempre più spesso, l’esito stesso delle elezioni è determinato dal livello (diseguale, appunto) della mobilitazione dei diversi segmenti dell’elettorato: la scelta del non-voto appare talvolta come una scelta pienamente e consapevolmente politica (un’astensione punitiva) o anche indirettamente politica, quando la parte con cui ti sei schierato in passato, per le più svariate ragioni, non appare più in grado o non merita più di essere sostenuta.
E allora, si ritorna al punto di partenza: se non si spezza il processo di destrutturazione e di sfarinamento dei partiti, sarà ben difficile immaginare che in Italia si possa tornare ai “fasti” del passato. Sarebbe già un gran passo frenare e invertire la caduta. Bastino poche cifre: ancora alle politiche del 1979 votò il 90,65 degli italiani, nel 2001 si scese all’81,4%; nel 2013 si arrivò al 75,2 e nel 2018 al 72,9%. S potrà sperare in un’inversione di tendenza? Credo che il primo passo dovrebbe essere il ripristino di un sistema proporzionale….ma di questo certamente torneremo a parlare.