Viaggiare migrante
Voci dalle rotte di mare
di Barbara Borgi
Viaggio, estate, mare. Con un esercizio associativo degno di un settimanale scandalistico, apro con questa triade dal cui appeal pochi di noi possono dirsi immuni: tra le più evocative, mai fuori moda, declinata in formato pop, disponibile in versione vip, accende un immaginario ancestrale, mitologico, colto e, insieme, si strizza da un tubetto di plastica rosa fluo, pronta all'uso, instagrammabile. Perfetto incastro con la triade appena presentata, un altrettanto caratteristico e giustificato insecchirsi della forza vitale, un afflosciarsi dell'essere tutto, capace di assolverci - all'occorrenza e meglio del solito - dagli sforzi di coscienza e autoformazione, dalle fatiche emancipatorie altrui.
Ricordo precisamente quel tipo di mollezza estiva, appiccicosa e salmastra, quando la mia personale associazione è saltata, rendendomi impossibile tornare a pensare al viaggio, al mare - al mio mare - come avevo fatto fino ad allora. Era uno dei miei tanti andirivieni in nave sulla linea Patrasso - Ancona con scalo a Igoumenitsa. Lo scalo era una parentesi breve, giusto il tempo di imbarcare qualche turista che non aveva consumato le mete greche più "in" sull'Egeo, ma soprattutto i camion. Lì, affacciata sul ponte, mentre osservavo svogliatamente la stiva inghiottire i veicoli, ho visto per la prima volta quelli che poi sono stati definiti "ragazzi delle reti" (di cui si è parlato intorno al 2010 grazie a monitoraggi pluriennali e report di attiviste/i e giornaliste/i indipendenti, intervenuti sul campo - con copertura quasi nulla sui canali mainstream). In quella occasione, ho guardato cioè una manciata di ragazzi giovanissimi, fino a quel momento statiche comparse a delimitare il porto, calcolare il momento giusto per arrampicarsi sulle reti, scavalcare il filo spinato, gettarsi in una corsa a perdifiato fino a sparire. Sparire dietro ai camion in procinto di imbarcarsi nel tentativo di nascondersi dentro il rimorchio giusto, oppure sotto, nell'esercizio disperato di rimanervi aggrappati.
Ebbene, quell'episodio rimane vivo per aver immediatamente assunto una scomoda valenza epistemica nella mia percezione. Mi sorprendo ancora, a distanza di quasi vent'anni, di non essermi potuta concedere un moto di empatia immedesimativa, pur riconoscendo in quei ragazzi dei miei coetanei all'epoca dei fatti. Perché un minuscolo tratto del loro viaggio io l'avevo condiviso anche pochi anni prima, su quella stessa nave, nell'adempimento del progetto migratorio della mia famiglia: alla ricerca della felicità migliore possibile. Si trattava però di un viaggio ordinato, pulito, con biglietto all inclusive che, oltre alla biancheria stirata in cabina, aveva previsto alcune ore di potenziamento della grammatica italiana impartitemi dai miei genitori, entrambi insegnanti. Un perfetto esempio di migrazione economica, eppure diverso da tanti altri, in virtù della nazionalità dei protagonisti, cittadini europei, religiosamente inseriti entro i parametri Schengen. Ed ecco perché un'adolescente era perfettamente in grado di riconoscere, tra tutti i sentimenti possibili, la propria indignazione su quel ponte, guardando i ragazzi delle reti. La profonda vergogna di essere iscritta nei codici di dominio che attribuiscono legittimità e tutela ai diritti umani su criteri ascritti, ineluttabili e classificatori.
Ben poco è cambiato da quando quell'adolescente ha basato sul diritto migratorio le proprie esperienze formative e professionali. La vicenda dei ragazzi delle reti si è risolta con 7 grandi autobus delle forze speciali greche che, senza lesinare sull'uso della forza, hanno proceduto a cattura e arresti di massa sulle montagne adiacenti al porto - dove i migranti, per lo più minorenni come appunto confermato dai report, trovavano rifugio in attesa della volta buona per l'imbarco. Il mare nostrum, d'altro canto, continua a stratificare storie di respingimenti istituzionali, gommoni mandati alla deriva, barchini speronati, rinvii di carichi al mittente con l'ausilio di trafficanti, criminalizzazione dei salvataggi. Nell'iconografia contemporanea, Europa assume tratti vignettistici, stesa su un materassino in bikini, cocktail alla mano e selfie nell'altra, mentre galleggia, ignava, fra i morti in mare.
Tra accordi bilaterali vecchi e nuovi, interventi normativi disorganici e politicamente ispirati, a sublimare la visione appena descritta (per quelli che riescono a entrare indenni nel nostro paese) è il sistema europeo comune di asilo, corredato delle specificità normative e operative nazionali. I recenti accordi, già in implementazione, sui centri "italiani" di accoglienza in Albania, i Centri di permanenza per i rimpatri (nonché i vecchi Centri di identificazione ed espulsione) teatri di brutali privazioni della libertà e dignità umana, ci dicono ben poco sulla metodologia per l'individuazione delle vulnerabilità delle/dei migranti o sulle garanzie di tutela dei diritti umani imprescindibili. Ancora una volta, tuttavia, ci dicono molto su un approccio sommario e criminalizzante, in cui le voci dei migranti irregolari richiedenti asilo si appiattiscono tra le liste di paesi di origine sicuri e criteri di meritevolezza etnocentrici.
Ben poco è cambiato, purtroppo, dopo aver avuto la preziosa facoltà di ascoltarle, quelle voci. Nel corso di interventi di monitoraggio e consulenza fuori dai CIE, nei centri di prima e seconda accoglienza istituzionale, negli spazi autogestiti promotori di scuole e sportelli di ascolto e orientamento per migranti, le storie raccolte non hanno fatto altro che dare amare conferme:
[1]"Sono il primo di sei figli, tutti minorenni, abbiamo perso nostro padre e con lui ogni supporto. Ora sono io il capofamiglia e devo trovare il modo per aiutare tutti".
"Mio padre mi ha disconosciuta e cacciata in quanto unica figlia femmina. Ero sola ed esposta a tratta o stenti nel mio paese".
"Sono cresciuto da solo per strada nell'indigenza, non ho conosciuto casa e famiglia, volevo una vita migliore per me e la mia compagna, primo e unico amore della mia vita".
"Ho lasciato il mio paese per mantenere i miei cari in condizione di estrema povertà. Sono stato sfruttato lavorativamente fino al midollo in molti paesi prima di provare a raggiungere l'Europa".
"Volevo la possibilità di poter scegliere da sola il mio lavoro e un marito, seguire le mie aspirazioni e per questo venivo punita con violenza dalla mia famiglia".
"Sono partito perché io e mia moglie non riuscivamo a sfamare i nostri figli e dargli cure sanitarie adeguate".
"Sono fuggita da sola non appena rimasta incinta. Non volevo una vita di sottomissione e fame anche per mio figlio".
"Siamo fuggiti dalle bombe, non abbiano niente e nessuno da cui tornare".
Ebbene, scorrendo queste storie con sguardo qualificato, l'indice sa già dove fermarsi per assolvere o condannare l'immigrato irregolare - imputato a priori; saprà decretare la meritevolezza di una qualche forma di protezione internazionale e/o di un titolo di soggiorno sul territorio nazionale, e ancor più agevolmente avrà gli elementi per escluderla. È con lo sguardo da ragazzina, tuttavia, che continuo a leggerle con vigile indignazione. Ad interpretarle al di fuori delle tendenze cataloganti che mi fanno scuola, secondo cui una migrazione è accettabile e l'altra no (al netto dell'intensità lesiva di alcuni scenari rispetto ad altri, della complessità variabile nella presa in carico delle diverse vulnerabilità).
Tornando a viaggio - estate - mare a margine di quanto detto, trovo interessante approfittare del torpore stagionale, magari in spiaggia sotto l'ombrellone, per lasciarsi andare a una precisa riflessione.
I brevissimi cenni al nostro sistema d’asilo e al viaggiare migrante ivi contenuti toccano questioni etiche, morali e culturali che si riflettono, in quanto tali, negli ordinamenti giuridici nazionali e sovranazionali in un gioco degli specchi. La nostra Comunità in senso ampio ha dunque scelto di dotarsi di quel sistema valoriale, normativo e così via, in continua negoziazione. Essa ha scelto - e così legiferato - di classificare una vita di stenti, di sopravvivenza precaria, di incertezza sul futuro per sé e i propri figli, senza accesso al soddisfacimento dei bisogni elementari di sviluppo della persona umana, come non abbastanza gravi da configurare una violazione sistematica dei diritti umani - certamente non abbastanza da meritare tutela. La Comunità in senso ampio, e quindi anche bottom-up, partecipa alla ridefinizione dei principi fondanti e ne beneficia: lo fa, ad esempio, nella virtuosa costellazione di esperienze mutualistiche, solidaristiche, di cittadinanza amministrativa, d'inchiesta-denuncia. Specularmente, lo fa in termini di voto alla sicurezza e alla disciplina, di normalizzazione delle agende xenofobe, dei linguaggi razzisti, della spietata competizione per le risorse, lo fa in termini di letargica conservazione dello status quo e dei privilegi eurocentrici, di disumanizzazione dell'altro da sé, di indifferenza.
L'essere vantaggiosamente inscritti in un sistema culturale di criminalizzazione dei migranti economici, in altre parole, ci fa sentire assolti o condannati?
[1] Le parole riportate sono frutto di una scomposizione e rielaborazione di testimonianze reali, al fine di non esporre le storie nella loro interezza e riconducibilità individuale.