Parole, società e realtà

di Vera Gheno 

 Non posso fare a meno di sentire un brivido lungo la schiena, quando ascolto una persona pronunciare la frase “Le parole sono importanti”.  Non perché non creda alla veridicità dell’enunciato, ma al contrario, proprio perché lo prendo tremendamente sul serio, e conosco purtroppo cosa succede alle parole stesse quando diventano degli slogan: tendono a svuotarsi di significato, a non possedere più quella “scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze”, come scriveva Italo Calvino in “Lezioni Americane” (1986); scintilla, peraltro, che è necessaria affinché esse lascino un’impronta in noi.
Perché è assolutamente vero: le parole sono importanti, ma non di per sé, non se vengono staccate dalle azioni, dalla realtà, dalle persone. Il rischio di interpretazione distorta insito in quella frase è di pensare che l’importante sia usare le parole “giuste”, evitare quelle “sbagliate”, magari stilando una lista di termini vietati, da abolire, da cancellare dai dizionari. Non basta intervenire sulle parole, come se fossero dei cartellini che galleggiano isolati nell’iperuraneo. E nessuna persona che abbia un reale interesse nell’usarle meglio, che capisca davvero cosa voglia dire quella frase, può pensare anche solo per un attimo che basti intervenire sulle parole, se per il resto non si fa null’altro.
Non è un caso, del resto, se negli ultimi anni si sono viste petizioni di grande risonanza mediatica  per rimuovere dai dizionari i “sinonimi offensivi di donna” come cagna o puttana, salvo poi scoprire, a una disamina più attenta, che questi non sono mai stati elencati come sinonimi di donna, ma di buona donna, espressione polirematica registrata sotto il lemma-testa (in questo caso donna), come accade solitamente nei dizionari dei sinonimi e dei contrari.
Ma a parte la peculiare superficialità con la quale è stato interpretato quanto scritto in uno dei dizionari, pare esserci anche un fraintendimento di fondo rispetto al loro ruolo nel mondo contemporaneo.
Ora, le opere lessicografiche sono eternamente in aggiornamento e altrettanto eternamente sono perfettibili, dato che devono rispecchiare non solo gli usi linguistici, ma anche le esigenze sociali e culturali del momento che vanno a descrivere.
Ad esempio, non è strano che un vocabolario possa avere delle voci intrise di sessismo, perché magari compilate in un momento storico nel quale la sensibilità nei confronti delle questioni di genere non era paragonabile a quella attuale (e quindi, è sacrosanto segnalare eventuali storture alla redazione, in modo che si possa intervenire su aspetti che fino a oggi erano passati sotto silenzio); ma l’idea di togliere parole dai repertori lessicografici per contribuire a rimuoverle dall’uso è figlia di una sorta di cieco predeterminismo linguistico che rischia di portarci fuori strada rispetto a ciò che le parole possono fare.
I dizionari, infatti, hanno il compito di descrivere, non di prescrivere, gli usi linguistici. Svuotarli delle parole “brutte” (brutte per chi, poi? Da quale punto di vista?) vuol dire negare anche la possibilità a chi volesse capirle meglio di cercarne il significato, scoprirne la storia.
Questo è solo un esempio, tra i tanti, di quello che per me comporta l’interpretazione errata della frase “Le parole sono importanti”. Lo sono, senza ombra di dubbio: sono centrali alla nostra esistenza, sono l’essenza stessa della nostra umanità, la facoltà che più ci differenzia da ogni altra specie vivente sul nostro pianeta; ma ribadirne la centralità non è sufficiente, se le parole vengono poi staccate dall’azione.
Servono per dare forma ai nostri pensieri, ma non devono diventare delle piccole coccarde con le quali decorarsi il petto, senza fare nulla di più concreto.
Sono un atto politico, indubbiamente hanno un enorme valore performativo, ma sempre e solo considerandole in connessione alla società e alla realtà, senza renderle autoreferenziali, cosa che invece vedo spesso accadere. Intenzioni, interlocutori, contesto: queste tre coordinate ci aiutano a tenere ancorate le parole al resto.
Va da sé che ritengo altrettanto sbagliato ricorrere a frasi come “I problemi sono ben altri” (ovviamente, rispetto alle parole); anche in questo caso, si va a creare una dicotomia inesistente che separa le parole e le azioni e pretende di metterle in ordine di importanza.
Forse, entrambe interpretazioni discendono dalla nostra scarsa capacità di osservare la complessità senza provare la tentazione di ipersemplificarla; eppure, lo sforzo che secondo me richiede questo presente così tormentato e turbolento è proprio quello di rispettare tale complessità, di ricomporla, di analizzarla senza scomporla, ma anche senza pretendere di capirla a ogni costo.
Torno a dire: parole, società e realtà non devono venire disunite, pena l’irrimediabile perdita di potenza di ognuno di questi aspetti osservato da solo, indebitamente separato dagli altri due.