Una rete a maglia larga
All’origine del termine Cultura troviamo il latino colere, coltivare, il cui participio passato, cultus, indica la porzione recintata di terreno coltivato.
Il primo confine stabilisce la differenza fra dentro e fuori, fra ciò che conosciamo bene e di cui ci prendiamo cura e ciò che rappresenta un’incognita, in grado di sfuggire a controlli e previsioni. La conoscenza stessa aumenta con l’avanzare del confine, della linea, a volte sottile altre più marcata, capace di dividere il mondo sicuro, fatto di cose che sappiamo, da quello incerto e tutto da esplorare.
Nel sovrapporre una mappa politica a quella naturale di un territorio noi stabiliamo dove inizia e finisce la familiarità col mondo, il nostro mondo. Oltreconfine esistono altri mondi (o i mondi degli altri) con altre lingue, tradizioni, memorie alle quali in tempi storicamente recenti abbiamo attribuito la dignità di cultura.
Questo tipo di confine è stato nel tempo molto più plastico di quanto si possa immaginare: si è fatto muro invalicabile o frontiera, territorio di mezzo in cui due o più popoli si sono combattuti e nello scontro anche conosciuti. A guardar bene quello del confine costituisce un aspetto distintivo di ciò che rende l’umanità quella che è.
Confinare è prima di tutto un metodo per mettere ordine. All’interno di una linea di demarcazione collettiva noi tiriamo molte righe. Una delle più esplicite è quella fra sfera pubblica e privata. Dentro casa e fuori casa, nella piazza o nel circolo per iscritti, in una cerchia di intimi opposta alla moltitudine di conoscenti ed estranei noi esprimiamo idee, sentimenti, opinioni politiche, battute volgari e giudizi spietati.
Si dice oggi che la diffusione di internet abbia sfumato la demarcazione un tempo più chiara fra pubblico e privato. Ciò che un tempo sarebbe rimasto entro i confini delle mura di casa o di un ambiente ristretto e giudicato sicuro, oggi sarebbe continuamente esposto su piattaforme come Facebook o Instagram in cui mostrare tutto, dal divano nuovo di casa ai figli piccoli in momenti del tutto intimi e personali della loro quotidianità.
Condividiamo il piatto del ristorante, l’anniversario della morte di un familiare, l’insulto contro quel personaggio pubblico. “Non c’è più decenza signora mia”, “Abbiamo perso il senso del limite”; se così è può valere la pena chiedersi però di quale limite si tratti: quando postiamo riflessioni sulla nostra storia d’amore finita male o sulla lotta personale contro una malattia, quale confine stiamo valicando? Quello fra noi e gli altri o quello fra noi e...noi? Se esprimiamo un’opinione che riceve molti like e qualche replica negativa, perché ci mettiamo subito a controbattere quel messaggio, a tenere la nostra posizione, arrabbiarci, mettere dei paletti- “questo è il mio profilo, ci scrivo cosa mi pare, se non ti sta bene esci o ti butto fuori.”-?
Noi continuiamo a mettere dei confini anche in rete. Cerchiamo chi ci piace, selezioniamo, inseriamo o espelliamo, entriamo ed usciamo sulla base di un criterio per il quale il nostro profilo è nostro e non importa se lo seguono centinaia, migliaia di persone, molte delle quali sconosciute. L’esposizione su larga scala non ci ha emancipati dalla pratica di confinarci entro limiti che possono essere muri o frontiere. Finiamo per mostrare a noi stessi, forse prima che agli altri, ciò che ci piace vedere, raccontare. Vogliamo leggerci come leggeremmo un libro che ci appassiona, pagine belle e brutte, felicità e dolore. Noi vogliamo un’altra storia, un’altra mappa attraverso cui andare, tornare e ritornare nei territori del nostro percorso personale, passata o presente. Facebook, Instagram non si limitano a riportare un ricordo o un’opinione su qualcuno o qualcosa: la narrano, ce la rinarrano passando di amico in amico, follower in follower. Ci danno una storia, la nostra storia, che merita di essere raccontata. E ascoltare, leggere storie è da sempre per uomini e donne una tentazione irresistibile.
Ma non tutti usano internet per parlare a se stessi di sé (in un gioco di specchi sempre più complesso in cui negli altri cerchiamo conferme all’immagine narrata e mal tolleriamo i dissensi che la mettono in discussione). C’è chi ci mette le foto dei fiori o del gatto, chi usa i social per farsi pubblicità nel mondo del lavoro, chi fa attivismo giudicando gli account con cuccioli, mutande e praterie territori poco interessanti da esplorare.
La rete non dovrebbe ridursi a questo, per sfruttarne appieno le potenzialità occorre unirsi in movimenti di pensiero, praticare l’awakening, il risveglio collettivo sul cambiamento climatico, i diritti delle minoranze, gli abusi su determinate categorie di persone e via dicendo...
Eppure pare non esserci accordo neanche su come organizzare questi grandi movimenti. Ogni attivista ha la sua bolla, la protezione trasparente e dura entro la quale far rispettare idee precise, basarsi sul consenso, praticare la politica del prendere o lasciare, stare dentro o stare fuori. Dietro a content creator, influencer, divulgatori la schiera di chi segue e chi no. Di chi si allinea e chi no.
Per citare un acuto passaggio di Non me ne frega niente di Levante, di te o di me che
Combatto con lo scudo dello schermo
Le armi da tastiera
Il giorno sto in trincea, lancio opinioni fino a sera.
Difendo il mio confine perché su Internet si naviga in mare aperto, ma la sua fluidità non esime me dal bisogno di un recinto entro cui coltivare chi sono, dove sono e chi ci voglio. Lo dice la parola stessa, net.
Navigo in una rete a maglie larghe, ma le maglie ci sono. Può passarci di tutto eppure le maglie ci sono.