Il miglior turismo? 

È il non-turismo 

Rossano Pazzagli

Alla crescita dell’industria turistica si sono accompagnate negli ultimi anni crescenti preoccupazioni per gli impatti che essa genera sulla vita delle comunità residenti, con il moltiplicarsi di conflitti in rapporto all’uso del territorio e alla vivibilità dei luoghi.

Sono quindi emerse le problematiche legate all’overtourism, alle politiche di gestione dei flussi, alla trasformazione delle dinamiche abitative e alle tematiche inerenti la sostenibilità ambientale, spingendo verso un approccio critico alle conseguenze della turistificazione dei territori. Il turismo del futuro sarà il turismo dell’esperienza e della saggezza e si orienterà verso luoghi che saranno capaci di resistere all’affollamento e all’omologazione: un non-turismo che attrarrà i turisti di domani e che già vanta esperienze significative.

"Non Turismo", ad esempio, è il titolo di una collana dell’editore Ediciclo dedicata ai viaggiatori che al tour preconfezionato preferiscono l’incontro autentico con lo spirito dei luoghi: un progetto di guide innovative scritte dalle comunità locali per promuovere il turismo consapevole; di particolare interesse la guida dedicata a Ussita, nel parco nazionale dei Monti Sibillini.  

Sono infatti sempre di più coloro che progettano le loro vacanze o i loro viaggi verso mete non-turistiche, dove c’è spazio, salubrità, paesaggio, socialità spontanea, buon cibo, paesi… dove non ci sono borghi stereotipati, monumenti noti, attrattive massificate, sentieri troppo battuti, altri turisti…cioè dove non c’è niente, secondo la narrazione comune della società dei consumi.

Invece c’è molto. Se noi partiamo da uno sguardo territoriale che abbracci l’entroterra e la costa, ci accorgiamo che l’Italia è un paese fragile, diversificato, policentrico, da maneggiare con cura, pieno di campagne e di paesi spopolati, abbandonati, rimasti solitari e spesso delusi. Luoghi che oggi, complice la pandemia e la crisi dello stile di vita urbano o metropolitano, stanno riscontrando una nuova attenzione. Li chiamano borghi, ma io preferisco dire paesi, perché il paese è la comunità, è la fragilità delle sue relazioni, non solo il posto dove andare a mangiare o a far festa per un giorno. Anche il turismo deve tenere conto di questa fragilità, altrimenti diventa un elemento di rottura dell’equilibrio, di snaturamento e di spaesamento, come è avvenuto in tanti luoghi, anche bellissimi, travolti dai parcheggi, dagli eventi e dal carovita.

Per andare in direzione di un turismo sostenibile e socialmente accettabile bisogna governare i flussi, evitando la loro crescita costante e la concentrazione stagionale, abbandonando la logica dell’evento, rifuggendo una visione quantitativa dello sviluppo e una serie di altri rischi. Il primo è quello di trasmettere una immagine stereotipata dei luoghi; il secondo quello di espellere la residenza in favore di un uso temporaneo del patrimonio abitativo, specialmente nei centri storici;  poi occorre scongiurare uno sfruttamento intensivo e dissipativo delle risorse patrimoniali e ambientali ai fini della loro valorizzazione economica, che in genere si associa ad un mercato del lavoro tendenzialmente di scarsa qualità, a basse qualifiche e con la minima tutela dei lavoratori,. Pensiamo a quanto sono diffusi i conflitti sull’uso degli spazi pubblici e le tendenze a una colonizzazione culturale di luoghi che fino a qualche decennio fa mantenevano una loro personalità.

Bisogna essere consapevoli che l’uso turistico e ricreativo dei territori è un potente dispositivo di trasformazione territoriale, che rischia di favorire la produzione di uno spazio sociale finalizzato al consumo e all’estrazione di valore di scambio piuttosto che alle esigenze di vita delle popolazioni insediate. Non solo: bisogna anche sapere che nell’ottica del non-turismo un luogo, diventando turistico o troppo turistico, finisce per ridurre la sua attrattività turistica. Non è un gioco di parole perché se il turista dell’esperienza arriva in un posto e lo trova frequentato da persone come lui, pieno di ristoranti e vuoto di vita reale… non gli interessa più e se ne va in cerca di luoghi più autentici.

Negli ultimi decenni è emerso un turismo meno concentrato, basato sulla differenziazione e la personalizzazione, segnato dalla riscoperta del territorio e da nuove generazioni di turisti - dal gastronauta all’escursionista – spesso collegato a itinerari culturali e gastronomici, finalizzato all’integrazione settoriale, all’allungamento della stagione, ad un mercato del lavoro meno precario e all’accoglienza del turista in un ambiente di qualità. Il turismo non è solo impresa, ma soprattutto territorio, sociabilità, incontro, relazioni.

Nelle aree rurali e in qualche misura anche nelle città, ci sono pratiche e spunti di riflessione sul turismo che indicano quali forme di ricettività e/o di ristorazione privilegiare e su quali segmenti della ricettività insistere al fine di promuovere un turismo a misura d’uomo, che suggeriscono cosa fare per favorire l’incontro con l’ambiente e la vita locale, per evitare il consumo irreversibile delle risorse, la Disneylizzazione delle campagne o le varie forme di “globalizzazione del tipico”. Questo vale per i prodotti e vale per il paesaggio: è inutile trasformarlo in una cartolina che riproduce immagini stereotipate e spesso artefatte di brani del paesaggio italiano, che nella storia è stato disegnato dagli agricoltori, dai pastori, dagli artigiani e dai boscaioli, generazione dopo generazione.

In definitiva, occorre quindi guardare alla sostenibilità dei flussi, prima che al loro trend quantitativo. Quello a cui puntare deve essere un turismo diffuso, lento, destagionalizzato, consapevole, di tipo esperienziale, rispettoso delle peculiarità locali e delle relazioni tra comunità e paesaggio. In pratica, un non-turismo o almeno un altro turismo, come dimostrano anche le recenti iniziative citate all’inizio.
C’è un’Italia quasi morta da rivitalizzare: quella delle trattorie di qualità a basso costo, dove si mescolano abitanti e turisti; quella dei paesi coi panni stesi alle finestre, dei bimbi che giocano nelle piazzette non ancora invase dai tavolini, quella delle tradizionali locande o dei moderni alberghi diffusi, delle comunità che non hanno ancora ceduto alle catene globali e spersonalizzate di airbnb o simili; quella dei paesaggi dove ci si può perdere, dove non tutto è organizzato o illuminato, dove le notti senza luna sono ancora buie, dove le cose buone siano per tutti e non per pochi.

Il ritorno al territorio non è un salto all’indietro, ma un laboratorio di futuro nel quale sperimentare nuove economie e un turismo diverso: non il turismo di massa (quello che si misura con l’entità dei flussi degli arrivi e delle presenze), ma quello dell’esperienza o della saggezza, che guarda alla qualità e alla sostenibilità in una logica di partecipazione sociale e di integrazione territoriale.
Il non-turismo per salvare i luoghi.