Il terzo tempo dell’apprendimento

di Patrizia Lessi

 

Quanto sono ancora radicati gli stereotipi sulla terza età nell’immaginario comune?
Che sia la signora ad inforcare gli occhiali per fare un cruciverba, o il nonno amorevole che legge fiabe ai nipoti, l’anziano è spesso mostrato nell’atto di mantenere la salute fisica e mentale attraverso continue azioni di conservazione dello status quo: la memoria, le competenze, quanto appreso nell’arco di una vita che non va disperso. Raramente una persona anziana, ad eccezione di una eccellenza in campo intellettuale o scientifico, è descritta in termini di apprendimento attivo, di capacità che con la pratica dello studio possono avere esiti altamente produttivi per la società contemporanea.
 
Fra gli studi più interessanti sul tema vale la pena citare la Stereotype Embodiment Theory della psicologa statunitense Becca Levy che all’interno dell’Universtà di Yale conduce da anni una importante ricerca sul rapporto fra stereotipi, salute e apprendimento nella terza età i cui esiti sono stati recentemente pubblicati in Breaking the Age Code.[1]
Nel testo Levy mostra le due facce della medaglia riguardo l’insieme di credenze radicate socialmente sulle persone anziane intese come gruppo omogeneo e generalizzato. Se da una parte la vecchiaia rimanda ad un’idea di maturità e saggezza alla quale attingere, dall’altra è ampiamente diffusa l’immagine dell’anziano portatore di idee obsolete, appartenenti a un mondo che non ha più a che vedere con quello attuale, concentrato a mantenere in forma le capacità fisiche e mentali con piccoli esercizi quotidiani e attività di ritrovo e svago fra simili, in una collocazione a parte rispetto a quella della fetta produttiva della società.
Questo tipo di stereotipo è tanto più forte quanto più antica è l’associazione della vecchiaia all’impedimento e alla malattia, basti pensare al detto di Terenzio Senectus ipsa est morbus, la vecchiaia è di per sé una malattia.[2]
 
Nella modernità sarebbe stata la rivoluzione industriale a traghettare lo stereotipo negativo fino ai giorni nostri: con la fine del lavoro si interromperebbe il ruolo sociale esercitato con la professione. Frequente è il modo di dire “È un ingegnere, È un insegnante, È un fornaio...” che si trasforma in “Era un ingegnere, un insegnante, un fornaio...” non appena la persona va in pensione, anche se le competenze sono esattamente le stesse.
Cominciamo a interiorizzare questa idea della vecchiaia fin da piccoli familiarizzando con l’idea che memoria e capacità cognitive hanno una scadenza e che invecchiare significhi rassegnarsi a passare i propri giorni combattendo fragilità e malattie, senza più avere modo di dare alcun contributo alla società attiva.
Si innesca così un pericoloso circolo vizioso per cui la visione della terza età inculcata fin dall’infanzia diventa una condanna all’autosvalutazione nella stessa persona quando diventa anziana. 
I risultati di questo processo vanno dalla semplice idea di non essere più in grado di imparare cose nuove allo sviluppo di un atteggiamento mentale meno interessato al mondo. Molti anziani pur in buone condizioni fisiche ed intellettive finiscono per realizzare lo stereotipo interiorizzato della vecchiaia che nulla ha a che vedere con la realtà e che può tradursi in disturbi dei sistemi metabolico, neurologico e cardiocircolatorio.
A conforto di queste conclusioni Levy mostra il risultato di indagini fatte su campioni di anziani che, dopo la pensione, continuano non solo a coltivare interessi inerenti la loro professione o le passioni di una vita, ma accettano la sfida di cimentarsi nell’apprendimento di discipline del tutto inedite sia teoriche che pratiche. Rispetto ai campioni di persone che rinunciano progressivamente ad una vita attiva, integrata nei meccanismi che animano la società globale, i primi hanno evidenziato un rimarchevole incremento in termini di soddisfazione della qualità della vita e percezione di sé come naturalmente inseriti nella società produttiva.[3]
Gli atteggiamenti verso la vecchiaia e l’invecchiamento sono stati monitorati anche all’interno del lavoro svolto dalle Università della terza età presenti a partire dagli anni ’70 in Europa, Stati Uniti e Australia.[4]

Realtà di questo tipo sono sempre più diffuse anche in Italia, ma faticano a liberarsi dall’opinione comune che le vede spesso come sedi di attività ricreative rivolte agli anziani vittime dello stereotipo esaminato all’inizio. Queste istituzioni nascono infatti non solo per promuovere un invecchiamento sano, svagare anziani soli e aiutare quelli con una sintomatologia di ansia e depressione.
Fin dalla fondazione a Tolosa nel 1973 della prima Università della Terza Età ad opera di Pierre Vellas l’intento si è rivelato essere molto più ambizioso: “Contribuire ad accrescere il livello di salute fisica, mentale, sociale e la qualità della vita delle persone anziane; trattamento fisico, attivazione e stimolo cerebrale, apertura sulla società attuale, sviluppo delle relazioni sociali, conoscenza delle proprie radici, creatività, servizi resi al prossimo.
Realizzare un programma di educazione permanente per le persone anziane in stretta relazione con gli altri gruppi di età: musica, arte, folklore, poesia, teatro, e conferenze-dibatti.
Realizzare programmi di ricerca gerontologica.
Realizzare programmi di formazione in gerontologia, con programmi d'informazione della comunità. Si tratta di favorire la presa di coscienza di ciascuno nella nostra società.”[5]

A questi valori aderiscono anche le realtà italiane facenti parte dell’AIUTA[6] come l’Unitre[7] che conta fra le sue sedi anche quella di Piombino[8] presente dal 1986 sul territorio locale ed altre di recente fondazione quale l’Unilibera a Venturina[9] che sposano entrambe due aspetti fondamentali dei valori stilati da Pierre Vellas: il dialogo costante fra soggetti di tutte le età perché tutti parte integrante e attiva della società e il rispetto dei criteri di apprendimento permanente previsti dal Consiglio d’Europa[10] e ratificati in Italia dalla Legge 92 del 2012.[11]
Un’idea di apprendimento che dura per la vita e che restituisce peso, dignità e importanza ad una porzione di società sempre più numerosa e tutt’altro che prossima a tirare i remi in barca mentre gli altri affrontano le sfide della contemporaneità.


[1] B. Levy, Breaking the Age Code: How Your Beliefs About Ageing Determine How Long and Well You Live, Vermilion, 2022 [2]  Publio Terenzio Afro, Phormio, 160 a.C[3] Older People’s Quality of Life Questionnaire (OPQOL_brief), Life Satisfaction Index for the Third Age – Short Form (LSITA-SF), Geriatric Depression Scale (GDS-15), Geriatric Anxiety Scale Inventory (GAI), Attitudes to Aging Questionnaire (AAQ), scala del senso di coerenza (SOC-13), scala di autostima di Rosenberg (RSES) e supporto sociale. In B. Levy, Breaking the Age Code. [4] University of the Third Age (U3A) https://www.u3a.org.uk/[5] https://www.worldu3a.org/worldpapers/vellas-it.htm in https://www.worldu3a.org/index.htm[6] AIUTA, Associazione Internazionale delle Università della Terza Età [7] UNITRE Associazione Nazionale delle Università della Terza Età - Università delle Tre Età A.P.S, https://www.unitre.net/

[8] UNITRE Piombino (LI) FB UNITRE PIOMBINO[9] UNILIBERA Val di Cornia -FB Università Libera della Val di Cornia [10] Council Recommendation on Key Competences for Lifelong Learning, education.ec.europa.eu[11] Legge 92 del 28.06.2012, articolo 4, comma 51