Sviluppo e progresso di società vulnerabili

di Piero Ceccarini e Matteo Scatena

La vulnerabilità dei sistemi sociali è stata più volte messa in evidenza in ambito letterario.
In questo articolo, azzarderemo un confronto tra due grandi autori di diverse epoche: Flaubert e Pasolini, mettendo in evidenza i punti di contatto oltre le ovvie contrarietà date dal secolo di differenza che separa le due figure, mantenendo centrale la domanda: “Sviluppo o Progresso?”.
Il tema del progresso è centrale nel romanzo più celebre di Gustave Flaubert: Madame Bovary. Le posizioni che prende Flaubert sono da una parte molto comprensibili e se si vuole anche assimilabili a quelle di Pasolini. È chiaro che Flaubert veda nella nuova borghesia una classe sociale senza spina dorsale, ma al contrario di Pasolini non traccia un modello positivo da contrapporvi: Pasolini parlava di agricoltori e proletari come portatori di valori autentici anche se spesso sentirà una contraddizione tra i suoi ideali e il suo reale comportamento per aver comunque ricevuto un’istruzione e condotto una vita borghese (vedi “lo scandalo del contraddirmi” dalla raccolta “Le ceneri di Gramsci”, 1957). Flaubert si limita a mettere in evidenza determinate caratteristiche della società corrente, con oggettività, dalla noia borghese e dalle speranze disilluse perché difformi dalle avventure dei romanzi che leggeva: nascono così le avventure di madame Bovary. Anche i personaggi che gravitano intorno ad Emma sono per lo più privi di manifestazioni reali di comprensione ed affetto nei confronti dell’altro: a partire dal marito Charles che non riesce ad andare oltre le evidenti menzogne della moglie, passando per Lheureux che, facendo leva sul carattere fragile di Emma, porterà la famiglia Bovary alla bancarotta, per finire col farmacista Homais che sembra più interessato ad un riconoscimento per le sue scoperte farmaceutiche che all’apprezzamento vero e proprio della sua stessa disciplina.
Lo stile impersonale di Flaubert, che riteneva obbligatorio per un artista essere totalmente oggettivo, nel raccontare la realtà della società e dei rapporti umani che ne conseguivano, lo porterà ad un processo proprio aver pensato ad un’opera così crudelmente impersonale come Madame Bovary, ma allo stesso tempo così vera da mettere in guardia la giustizia francese. Molto spesso per trattare di temi così “scivolosi” sono stati usati degli espedienti che hanno reso la narrazione comunque rintracciabile all’interno dei codici sociali vigenti: nella Medea di Euripide ci si è potuti spingere così a fondo nella narrazione, arrivando forse al più tragico dei delitti concepibili, una madre che uccide i suoi stessi figli, perché Medea, seppur tradita, era per la società ateniese un’estranea, una straniera, veniva dalla Colchide ed era una maga. Le sue azioni erano di per sé comunque ingiustificabili ma in un certo modo erano raccontabili perché fatte da qualcuno che stava al di fuori della società vigente. Sarebbe indubbiamente stato più difficile per Euripide presentare a teatro una tragedia dove una madre ateniese, perché tradita dal marito, uccidesse entrambi i figli. Manzoni ambienta i Promessi Sposi nel Seicento per creare un diversivo rispetto alla dominazione austriaca, ma ancora, in uno dei primi romanzi italiani nei quali si parla di piacere fisico femminile, Fosca, scritto da Igino Ugo Tarchetti ed uscito nel 1869, Tarchetti ci descrive le perversioni e i desideri sessuali di Fosca dopo aver detto esplicitamente che soffre d’isteria, infatti era inconcepibile in quel periodo che una donna parlasse ad un uomo di piacere corporeo così chiaramente come fa la protagonista.
Flaubert, al contrario, fa una fotografia alla società francese e il quadro, seppur dipinto con uno stile impersonale e senza riflessioni dirette dell’autore, è chiaro: quella borghese è una società piena di falsità e priva di reali rapporti umani.
È interessante analizzare che a distanza di un secolo il ruolo della borghesia ha sempre mantenuto una centralità all’interno della società, cambiando, però, metodo nel tempo.
Se infatti la società di Flaubert era incentrata sul progresso, quella di Pasolini si trova, invece, nella fase di sviluppo. Ma qual è la differenza? Cosa comporta questa diversità sociale?
Parliamo di società perché è importante capire dove e come un testo letterario viene concepito, se accettando il sistema vigente, oppure attraverso un approccio trasgressivo e alternativo al sistema imperante.
E se espandiamo la concezione di letteratura (sia per la sua parte istituzionale che per quella edonistica, o come direbbe Barthes per “il piacere del testo”) agli articoli di giornale, è fondamentale analizzare, per capire la vulnerabilità di un modello sociale, quello di Pier Paolo Pasolini scritto nel 1973 intitolato “Sviluppo e Progresso”.
<<Ci sono due parole che ritornano frequentemente nei nostri discorsi: anzi sono le parole chiave dei nostri discorsi. Queste due parole sono “sviluppo” e “progresso”. Sono due sinonimi? O, se non sono due sinonimi, indicano due momenti diversi di uno stesso fenomeno? Oppure indicano due fenomeni diversi che però si integrano necessariamente fra di loro? Oppure, ancora, indicano due fenomeni solo parzialmente analoghi e sincronici? Infine; indicano due fenomeni “opposti” fra di loro, che solo apparentemente coincidono e si integrano? Bisogna assolutamente chiarire il senso di queste due parole e il loro rapporto, se vogliamo capirci in una discussione che riguarda molto da vicino la nostra vita anche quotidiana e fisica…>>.
Per continuare l’analisi e vedere come l’autore definisce “sviluppo” e “progresso” è necessario contestualizzare e ricordare che Pasolini scrisse questo e altri numerosi articoli durante quel periodo che viene definito “boom economico”, quando si andava affermando un senso comune progressivamente omogeneizzato sulla società dei consumi. Pasolini criticava soprattutto il passaggio da un’Italia contadina a un’Italia industriale (vedi “L’articolo delle lucciole”, Scritti corsari), lanciando i seguenti interrogativi: << Chi vuole infatti lo “sviluppo”? Cioè chi lo vuole non in astratto e idealmente, ma in concreto e per ragioni di immediato interesse economico? È evidente, a volere lo “sviluppo” in tal senso è chi produce; sono cioè gli industriali (…). Gli industriali che producono beni superflui. (…)
Chi vuole, invece, il “progresso”? Lo vogliono colore che hanno interessi immediatamente da soddisfare, appunto attraverso il “progresso”: lo vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e dunque è sfruttato…>>. Una distinzione lucida e probabilmente ancora utile da richiamare nel nostro tempo, ora che anche il modello della società del cosiddetto benessere sembra essere entrata in crisi per vari motivi.
Ovviamente è necessario tenere conto che sono passati cinquant’anni da quando Pasolini scrive questo articolo e che il sistema capitalistico ha subito delle modifiche nel corso del tempo, comunque mantenendo centrale l’ideologia dello sviluppo, della crescita, del consumo.
È inevitabile vedere un “vulnus” di fronte a questo sistema basato sul superfluo, sull’accumulo, sulla mancanza di collettività, ma tutto estremamente concentrato su un “io” e sul suo profitto.
Oltre a una vulnerabilità sociale è intrinseca nel meccanismo una vulnerabilità individuale, ovvero di come il singolo, alienato nella massa come un automa (utilizzando un termine montaliano), alimenti il bene superfluo. E con sé porterà tutte le miserie della condizione consumistica, sentendosi vulnerabile non più di fronte alla società, ma di fronte alla vita, alla condizione umana, abbandonandola.
Se pensiamo al progresso e al benessere di una popolazione, crediamo sempre che il passo migliore sia quello in avanti, magari salendo un gradino o mitizzando l’innovazione; noi crediamo invece che oggi progresso significhi ricalpestare le macerie del passato per ricostruire le vere fondamenta della condizione umana, l’unica condizione necessaria per progredire, per un essere umano e una società meno vulnerabile.