Invecchiamento e denatalità

Come superare le difficoltà economiche e sociali del futuro


di Stefano Benvenuti Casini

L’invecchiamento in buona salute è certamente una grande conquista che fa dell’Italia uno dei paesi più longevi al mondo: la speranza di vita alla nascita ha oramai superato gli 80 anni (85 per le donne) tanto che oramai la soglia oltre la quale si diventa anziani viene spostata ai 75 anni.
Una conquista, ma anche un problema perché per quanto le condizioni di vita e di salute siano decisamente migliorate rispetto al passato, con l’avanzare dell’età affiorano le malattie -spesso croniche- che in alcuni casi compromettono la stessa autonomia dell’anziano, con disagi e costi a carico delle famiglie e della Pubblica amministrazione. 
La spesa per le pensioni e quella per l’assistenza e la cura rischiano infatti di gravare sulle casse dello Stato mettendone in dubbio la sostenibilità. Le previsioni fornite dalla Ragioneria dello Stato sono poco rassicuranti; infatti, nonostante che, con la riforma del sistema pensionistico (dal retributivo al contributivo), si riesca a tenere sotto controllo la spesa per le pensioni, quella sanitaria (comprensiva anche della spesa per la non autosufficienza) tenderà ad incidere in modo crescente sul PIL. Del resto, visto che la popolazione anziana di qui al 2050 aumenterà di circa il 40%, mentre quella in età lavorativa si ridurrà di circa un quarto, il sospetto che quest’ultima non riesca a sostenere la prima appare del tutto legittimo.
Uno squilibrio portatore di un potenziale conflitto tra nuove e vecchie generazioni. Un conflitto che assume risvolti diversi, soprattutto in un paese in cui, nonostante la bassa presenza di giovani, questi hanno difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro. L’immagine è quella di una società con un alto indice di vecchiaia in cui gli anziani stentano a lasciare posto ai giovani, limitandone le prospettive. Non c’è in altre parole solo il problema di chi paga le pensioni degli anziani, ma quello assai più in generale di una società poco accogliente per i giovani.
In realtà questa lettura è del tutto corretta e, soprattutto, rischia di trasformare una virtù -l’invecchiamento- in un problema. Vengono infatti nascoste almeno due questioni almeno altrettanto rilevanti. La prima è il basso numero di giovani frutto di un tasso di natalità tra i più bassi del mondo: l’Italia è l’ultimo tra i 27 paesi dell’UE per presenza di giovani. La seconda è la bassa partecipazione al lavoro della popolazione in età lavorativa, peraltro associata ad una produttività che è praticamente ferma da un quarto di secolo. Se solo si raggiungesse il tasso di occupazione (soprattutto giovanile e femminile) dei paesi del centro-nord Europa e si ritornasse su di un sentiero normale di crescita della produttività il problema di come sostenere una popolazione anziana in forte aumento sarebbe risolto.
Quando però si affronta il tema della produttività -e quindi dell’innovazione- vale la pena di ricordare che la cosiddetta “IV rivoluzione industriale” con l’Internet of Things si inserisce pesantemente anche nella produzione dei servizi e, quindi, anche di quelli per la cura e l’assistenza. Su questo fronte vale la pena di mettere in evidenza come una delle caratteristiche delle nuove tecnologie sul fronte sanitario è quella di intervenire sulla prevenzione, evitando quindi che i danni che possono derivare dalle malattie assumano dimensioni più gravi e più costose.
Tuttavia, anche questo modo di impostare la questione è parziale in quanto parte da una visione dell’anziano come di persona improduttiva e quindi passiva, trascurando il ruolo positivo che anche in questa fase della vita può essere ancora svolto. Intanto lavorando: in Italia il numero di over 65 che ancora risulta occupato supera le 700 mila unità ed è raddoppiato in un ventennio e tendenzialmente aumenterà anche in futuro dando un contributo rilevante alla formazione del PIL. Ciò può apparire contraddittorio rispetto alle difficoltà dei giovani di entrare nel mondo del lavoro: se gli anziani non abbandonano il lavoro come fanno i giovani ad inserirsi? In realtà nei paesi in cui il tasso di occupazione degli over 65 è più alto del nostro, è più alto anche quello giovanile; il problema è casomai quello del rapporto tra giovani ed anziani nel luogo di lavoro, delle rispettive retribuzioni e prospettive di carriera.
Inoltre, gli anziani attivano l’economia tramite i loro consumi: è la cosiddetta Silver Economy definita come quel complesso di attività che ruota intorno ai bisogni degli anziani. Alcune stime indicano che in Italia le spese della fetta di popolazione degli over 65 hanno un valore superiore ai 200 miliardi di euro coinvolgendo molti settori produttivi e creando occasioni di lavoro.
Ma ciò che forse è più importante -in realtà poco enfatizzato- è la semplice constatazione che l’abbondanza di anziani rappresenta un importante laboratorio per lo studio, la comprensione dei bisogni e quindi del modo di soddisfarli. Avere una così ampia platea di persone che esprimono i bisogni tipici di una fase della vita da cui tutti, sperabilmente, passeranno, consente di sviluppare ricerca ed innovazione il cui esisto potrebbe essere fonte di produzione e di occupazione. Più che i consumi fatti dagli anziani conterebbero gli investimenti indotti da una società dotata di un’ampia dose di anziani spesso benestanti.
Vi sono dunque molte facce dell’invecchiamento che vanno tenute tutte assieme perché è innegabile che vivere più a lungo è una conquista per tutti. Ridurre tutto in un conflitto tra generazioni perché la spesa per gli anziani potrebbe non essere sostenibile è un errore in cui non si deve cadere operando su quelli che sono i veri nodi della nostra economia e che sono legati ad una difficoltà di crescita. Difficoltà che non può essere assunta come un destino ineluttabile: accrescere la produttività ed aumentare il tasso di occupazione è possibile. Il Next Generation Europe è nato proprio per evitare tale potenziale conflitto generazionale.