Spazi e luoghi
“Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo”. In uno dei libri più influenti della seconda metà del secolo scorso Marc Augé definiva, dopo una accurata riflessione sulla natura del luoghi, il rapido diffondersi di contesti spaziali rappresentativi di un’epoca, da lui chiamata surmodernità. Mai forme pure – né il logo né il nonluogo sono degli assoluti – e tuttavia la distinzione tra luoghi e nonluoghi “passa attraverso l’opposizione del luogo con lo spazio”.
L’elenco puramente indicativo ed esemplare di nonluoghi che fa Augé nel testo – dagli autogrill ai campi profughi, dagli aeroporti ai centri commerciali alle autostrade – ha ingenerato, soprattutto (crediamo) in chi non ha letto il libro, una estensione ed una sovrapposizione dell’idea di nonluogo al brutto, al degrado, all’abbrutimento delle relazioni sociali. In questa chiave, il paesaggio toscano, quello stereotipicamente fissato nell’immaginario turistico mondiale, sarebbe un luogo (ha identità e storia, contiene relazioni) mentre la periferia di una metropoli fatta di cemento e disordine urbanistico diventa per opposizione un nonluogo, spazio desertificato del suo passato, anonimo e terreno della lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza.
Ma le cose stanno davvero così?
Nella scena conclusiva di uno dei film iconici della fine del Novecento, The Warriors (I guerrieri della notte, 1979), i membri della gang newyorchese protagonista della storia, in un’alba livida (ma che cos’è un’alba livida? si chiedeva Marco Paolini descrivendo alle prime luci dell’alba il deserto di fango di Longarone, Vajont), scendono dal vagone della metropolitana istoriato di brutti graffiti dopo una notte infernale di scontri, sangue e morte, finalmente tornati nel loro quartiere; la telecamera inquadra, come fosse il loro sguardo, un panorama grigio, squallido, di case anonime e senza qualità, tetti cupi e qualche luce assonnata alle finestre. “Guarda che posto di merda”, dice uno dei protagonisti, “e abbiamo combattuto tutta la notte per ritornarci”.
Un luogo brutto dunque, ma un luogo, sicuro, conosciuto, amico (dunque relazionale, storico e identitario). Magari buono solo per andarsene (subito dopo infatti il ragazzo sussurra “bisognerebbe andarsene per sempre”), come il famoso paese di Cesare Pavese, punto di riferimento rispetto al quale misurare il proprio posto nel mondo. Alla fine il ragazzo e la ragazza dei Guerrieri, prima di tornare alle loro strade di Coney Island, decidono che forse potrebbero fare un viaggio (“a me piacerebbe viaggiare, sai?” Tu hai viaggiato qualche volta?” “No, non ho mai viaggiato. Chissà se un giorno ci riesco?”). Entrando, paradossalmente, nello spazio dei nonluoghi.
Perché se un elemento del nonluogo descritto da Augé sembra chiaro non è la sua bruttezza, il suo degrado (come quasi tutti intendono), bensì la sua natura di spazio di flusso: i nonluoghi sono la cifra della contemporaneità fatta di spostamento, di anonimato, di messa in scena; il termine ‘spazio’ rimanda ad un’estensione incastonata tra due o più punti, ad un qualcosa che ha natura eminentemente astratta (lo spazio è ampio, stretto o angusto concedendo alla percezione personale la sua interpretazione) e per ciò conquista sempre più centralità nell’immaginario contemporaneo (o surmoderno, con Augé): lo spazio aereo, lo spazio giudiziario, lo spazio (anche temporale) della pubblicità, gli spazi verdi, gli spazi di vita.
Gli spazi di flusso non sono necessariamente brutti, anzi. Qualche anno dopo Augé utilizza come metafore dei nonluoghi (in Disneyland e altri nonluoghi) mete desiderate e desiderabili, oltre all’immarcescibile parco di divertimenti yankee: il primo viaggio dei Warriors fuori dal ‘luogo’ Coney Island potrebbe essere quello a Mont-Saint-Michel, o sulla sabbia di La Boule, tra i castelli di Ludovico II o anche in visita alla magnifica costruzione da archistar della fabbrica de L’Oréal, oppure tra il paradiso tropicale ricostruito in Normandia sotto la cupola di Center Parcs. Tutti ‘posti’ belli, senza dubbio, o divertenti, e tutti nonluoghi. Ci potranno arrivare in aereo, soffermandosi negli spazi d’attesa per l’imbarco, o percorrendo autostrade costellate di spazi di sosta (autogrill) o di indicazioni turistiche che rimandano sempre a luoghi bypassati dalla striscia di asfalto; arrivati a destinazione, potranno essere sopraffatti dalla moltitudine dei negozi che vendono memorabilia (storiche e identitarie certamente, molto spesso enogastronomiche) che sovente rimandano a passati improbabili, ma dei quali compreranno e condivideranno la memoria attraverso i souvenir.
I nonluoghi sono dunque spazi costituiti per certi fini – il trasporto, il transito, il commercio, il tempo libero – e per la loro essenza determinano il rapporto dell’individuo al loro interno: Augé lo chiama contrattualità solitaria, spesso in relazione con soggetti dialoganti astratti (la voce del bancomat o del casello autostradale, il pannello luminoso di divieto o prescrizione, la cartellonistica ammiccante). Ancora una volta, per molti, questa peculiarità dei nonluoghi – la solitudine, l’anonimato – potrà rivelare il suo lato attraente: l’identità provvisoria (appunto, provvisoria) negli spazi di flusso potrebbe rivelarsi “una liberazione [per] coloro che, per un po’ di tempo, non devono mantenere il proprio rango, il proprio ruolo o essere sempre presenti a se stessi”, e possono dunque sfuggire alla rigorosa scansione dei compiti e delle funzioni loro assegnata.
Lo status dello spazio dunque è variabile: è attraente, per quanto ci attrae l’essere altro-da-sé che la modernità (la contemporaneità, la post-modernità, la seconda modernità, la surmodernità), sin dai tempi degli studi dei padri della sociologia, offre ai profughi della comunità; del resto, il diritto irristretto al turismo come conquista sociale è uno dei topos dell’oggi e il turismo si nutre di spazi sino a piegare la natura stessa dei luoghi: come intendere altrimenti la trasformazione dei paesi in borghi che ha colonizzato il linguaggio e la pratica nazionali, ossia spazi da frequentare per poco tempo (flusso) e con rinnovata soddisfazione di trovarsi – da itineranti – immersi nella storia, nell’identità e nelle relazioni altrui, magari nel frattempo esauritesi? Quella stessa sensazione (gratuita) di libertà e di sospensione di chi si trova in uno spazio (naturale) aperto non viene per caso replicata dall’ingresso in un outlet-villaggio dove si è abitanti provvisori di uno spazio dove tutto è possibile, con la mediazione della nostra carta di credito?
L’altra faccia dello spazio della surmodernità è la percezione dello scorrere del tempo che muta le nostre coordinate abituali: quando Augé ritorna nel Metrò parigino 20 anni dopo la sua prima indagine etnografica, sente di amare ancora quel reticolo di relazioni tra il sotto e il sopra della città, e tra coloro che abitualmente lo frequentano, ma la certezza che nel primo viaggio non fosse di fronte a un nonluogo si appanna nella trasformazione ‘organizzativa’ del Metrò, sempre più simile all’esperienza in un aeroporto o in un ipermercato, dove il transito solitario – assieme a tutti i transiti solitari che ne definiscono l’insieme dei frequentatori – avviene mediato dalle parole dei nonluoghi, non più pronunciate da persone ma da soggetti dialoganti automatizzati, così come le operazioni (automatizzate) di certificazione dell’ingresso e dell’uscita.
La cifra della contemporaneità è la proliferazione dei nonluoghi, degli spazi di flusso desiderati e desiderabili (o resi tali dalla ‘narrazione’ globale perché funzionali ad essa), con i paradossi speculari della resistenza dei luoghi nelle restanze (comprese le periferie degradate, i ‘posti di merda’) o nel fiorire – magari intermittente – di sprazzi consuetudinari con – come dire? – il o la banconista del bar della nostra stazione di servizio preferita nel nostro pendolarismo quotidiano.
Non sarà il bistrot, forma di ‘resistenza’ in un mondo di ubiquità e immediatezza, “[luogo] nel senso compiuto del termine [dove] la gestione dello spazio è prioritaria e il tempo è un valore”, ma forse è proprio nella ricerca di frammenti di luogo negli spazi di flusso che si appalesa la sottile nostalgia di un tempo lento e di una faccia nota nell’epoca dei desiderati, scintillanti e solitari spazi affollati della contemporaneità.
Abbiamo evocato:
Marc Augé,
- Nonluoghi, Elèuthera, Mi 2018 (ed. or. 1992)
- Disneyland e altri nonluoghi, Bollati Boringhieri, To 1999 (ed. or. 1997)
- Un etnologo nel metrò, Elèuthera, Mi 2023 (ed. or. 1986)
- Il metrò rivisitato, Raffaello Cortina Ed., Mi 2009 (ed. or. 2008)
- Un etnologo nel bistrot, Raffaello Cortina Ed., Mi 2015 (ed. or. 2015)
Cesare Pavese,
La luna e i falò, Einaudi, To 2020 (ed. or. 1950)
Vito Teti,
La restanza, Einaudi, To 2022
The Warriors (I guerrieri della notte), 1979, regia di Walter Hill