Un vaccino chiamato SlowFood 

di Rita Salvatore


Seppur di natura metaforica, il virus che - ormai più di trent’anni fa – preoccupava un gruppo di intellettuali non era meno epidemico di quello che attualmente sta minacciando il mondo intero.
Era il virus della “fast life” che, a partire da una esasperata interpretazione della civiltà industriale, come in una sorta di autofagia globalmente estesa, stava conducendo le nostre vite vorticosamente all’interno di ritmi sempre più accelerati, finendo col confondere l' efficienza con la frenesia, l’alimentazione con la fagocitazione, il tempo con la velocità.
Di fronte al dilagare impetuoso di questa “ideologia dominante”, un gruppo di dodici amici illuminati tra cui Carlo Petrini e Folco Portinari, fondatori di quello che da un po’ di anni si è imposto come il più ampio e riconosciuto Food Movement,  elaborarono e sottoscrissero il manifesto dello Slow-food, come appello rivolto “a tutti coloro che vogliono vivere meglio”.
In modo provocatorio, e per certi versi anche un po’ goliardico, i firmatari vedevano proprio nella proposta dello Slow-food una sorta di vaccino in grado di prevenire e di curare tutti gli effetti collaterali della fast-life.  Principio attivo di questo sistema antidotico erano la “vita comoda” e i “piaceri sensuali”, mentre le indicazioni d’uso prevedevano “un lento e prolungato godimento”. 

Il cuore pulsante di questa proposta era rappresentato da una visione di gusto socialmente intesa; a partire da una concezione edonistica, questa idea arrivava a configurarsi come etica riflessiva rispetto a quanto stavamo perdendo in termini di socialità e di umanità, con l’avanzare della modernizzazione. Fuor di metafora medica, potremmo dire che la lentezza veniva indicata come lo strumento per recuperare quella “sociologia del pasto” in cui George Simmel intravedeva proprio l’origine della dialettica individuo-società. Occorreva arrestare il turbo e tornare a rimpossessarsi del giusto tempo da dedicare alla gioia di stare insieme davanti ad un buon pasto, per riconoscersi come parte di un corpo sociale inclusivo e non come atomi impazziti di un mondo in corsa. 

A distanza di due anni dalla prima stesura di quel documento, il gruppo di amici era cresciuto e si ritrovava nella capitale mondiale della gastronomia d’eccellenza, Parigi, per siglare formalmente la nascita del movimento. Era il 10 dicembre del 1989 e Slow Food stava già diventando una realtà di portata internazionale. Certo, forse solo in pochi avrebbero scommesso che, con il suo lento procedere, la piccola chiocciola rossa nata da una provocazione intellettuale avrebbe raggiunto oltre 160 paesi del mondo, aprendo sedi, anzi Condotte, dalla Cina agli Stati Uniti!
Carlo Petrini ama spesso ripetere che “chi semina utopia raccoglie realtà”.
Nel caso dell' associazione da lui stesso lanciata, mai credo fu più pertinente, e oggi gli attivisti del movimento sono impegnati a seminare proposte su tantissimi fronti, al fine di assicurare che l’accesso al cibo “buono pulito e giusto” sia un diritto per tutti gli individui sulla faccia della terra.
Da associazione culturale di una piccola città delle Langhe, SlowFood oggi è diventata una realtà mondiale che, proprio a partire dal cibo, propone azioni in difesa non solo del Pianeta ma di una vita migliore. Lo fa attraverso progetti e campagne di intervento che porta avanti in tutte le comunità locali del Mondo: dall’Arca del Gusto e dai Presìdi (finalizzati a salvaguardare la biodiversità agroalimentare contro l’agricoltura industriale, l’erosione genetica e l’appiattimento degli stili alimentari), ai Mercati della Terra (luoghi in cui i piccoli contadini trovano uno spazio per la vendita diretta dei loro beni, prodotti in sinergia con le risorse naturali), agli Orti in Africa (uno strumento per garantire alle piccole comunità africane cibo fresco e sano), all’Alleanza dei Cuochi (un patto tra cuochi e piccoli produttori, teso a promuovere le produzioni locali di contadini, allevatori, casari, pescatori e artigiani del cibo) – solo per citarne alcuni. 

L’ultimo congresso internazionale, il settimo della storia dell’associazione, svoltosi a Chengdu (Cina) nell’ottobre del 2017, ha segnato il passo di questi importanti sviluppi ed ha chiaramente manifestato l’impegno non solo culturale ma politico del movimento, attraverso una nuova dichiarazione di respiro globale, in difesa di tutte le ingiustizie e le iniquità che oggi minacciano il benessere delle persone, delle comunità, del Pianeta.
Contro i giganti delle multinazionali e dei centri di potere, e a sostegno della moltitudine delle personae, sono state sottoscritte da 400 delegati, espressione di tutti i Paesi del mondo, 7 mozioni che rappresentano ad oggi gli orizzonti comuni e i fronti dell’impegno degli attivisti a livello internazionale, primi tra tutti il cambiamento climatico, la difesa della biodiversità, l’accesso alla conoscenza

 

Nel corso di questi ultimi trent’anni, la proiezione visionaria di quel piccolo gruppo di intellettuali, fondata sulla immagine di una umanità che stava velocemente divorando se stessa è stata purtroppo confermata dal ritmo con cui si sono susseguiti disastri ed emergenze, in molti casi generati proprio da modelli di sviluppo accelerati e fondati su un’idea di crescita senza misure.
L’umanità sta andando realmente incontro alla autodistruzione e il tic tac del the doomsday clock  si sta ormai avvicinando alla mezzanotte… arrestare quelle lancette non è più una solo una questione di scelta etica o estetica, ma la condizione sine qua non per la sopravvivenza. Questo impone drastici cambiamenti negli stili di vita e nelle scelte alimentari che, così come da sempre professa la filosofia slow, dovranno necessariamente essere orientate a ridurre gli impatti sull’ambiente e a riconoscere che la rigenerazione delle risorse segue “il ritmo del tempo e delle stagioni”, e non certo quello del consumo illimitato.