In altre epoche, quando lo spirito del tempo – volgarmente: le idee dominanti – prescriveva alle visioni l’aspirazione al sublime dello spirito, strappo corrosivo era dire “sogno di una cosa”. Qual è la mossa oggi, quando dirci nella civiltà dell’immagine è persino volgare constatazione? Anche le aule scalcinate delle nostre scuole, luoghi preposti alla lezione, che sappiamo voler dire ‘lettura’, sono sovraccariche da tempo di monitor, schermi e altri immaginifici congegni– e i soldi comandati del PNRR non poco contribuiscono al già carico deposito dei ‘dispositivi’ fuori uso. Non solo non c’è lezione non accompagnata, quando non sostituita, da immagini, ma il prodotto stesso del discente ricalca la medesima via. In altre parole, seguiamo la strada inversa spiegata dalla scienza semiologica: non è la lingua a tradurre l’immagine, ma l’immagine che sostituisce la lingua.
In quest’epoca di visioni, la visione, nelle sue varie sfumature di desiderio, speranza, senso, progetto di ciò che ancora non c’è, si colora della concretezza apparente dell’immagine visiva, inducendo continui slittamenti su due strade opposte, che approdano al medesimo autoinganno: o, aggrappandosi alla faccia non-reale, se ne esalta insensatamente la forza contestativa quand’è in realtà semplice variante dell’esistente; oppure si scommette a vuoto sulla sua concretezza, al punto che il desiderio di un’altra realtà è già appagato dalla pura produzione del sogno.
Certo il processo non è frutto solo della dinamica dell’immaginario, perché l’umanità non ha cessato la fatica di produrre le proprie condizioni d’esistenza, anzi in questo sudore affondano le radici della comunicazione e dell’immaginario, ma sappiamo quanto rilievo ha ciò che l’uomo e la donna pensano di se stessi.
Il dominio dell’immagine nella nostra epoca globalizzata è sollecitato anche da un altro elemento: a differenza della lingua, che ha bisogno di un apprendimento faticoso, essa si presenta immediatamente comprensibile. Non solo, ha una potente capacità sintetica – un’immagine, si dice, vale più di cento parole. Lo sapevano bene già i chierici medioevali, che sopperivano all’analfabetismo dei fedeli e al loro divario linguistico con le immagini alle pareti delle chiese. Nelle nostre aule, proprio su questo fanno leva gl’ipertesti, cercando di far fronte, nello stesso tempo alimentandola, alla difficoltà di concentrazione, di analisi, di memoria.
Se la falsa concretezza dell’immagine agevola l’inganno, dando l’impressione di essere la realtà, la sua forza sintetica non allena l’analisi, la fatica delle connessioni e invece sollecita prepotentemente l’emozione. Non è forse anche in questa diseducazione profonda, la risposta alla sorpresa di chi, questi giorni, ha osservato che il nuovo presidente argentino Milei ha ricevuto il voto proprio da coloro ai quali ha francamente promesso di rendere la loro vita ancora più infernale?
Due altri costitutivi sociali segnano direttamente o indirettamente la nostra civiltà dell’immagine. A dispetto della dimensione sempre più rarefatta con cui la realtà si presenta agl’individui, la nostra rimane una civiltà materialista, anzi materialona, intesa come valore e come ovvietà. Un’urgenza di materialità che include anche campi per secoli di stretta pertinenza linguistica, come accade con la graphic novel e che, mentre è sottratta e quasi annichilita la realtà della relazione sociale e umana tra persone, viene riversata nel virtuale, fino a provocare, nei più esposti per fragilità e anni, le nuove patologie del ritiro nella stanza, del bullismo virtuale e così via.
Il fenomeno è tanto profondamente e vastamente intrinseco alla nostra civiltà globale, che il più innovativo capitalismo mondiale ha trovato modo di estrarre il profitto da tale realtà di secondo livello caotica, emotiva, istintuale, occasionale, attraverso il più astratto razionalismo matematizzante, condensato negli algoritmi e nelle sinapsi meccaniche dei calcolatori. L’abisso che separa le due dimensioni è vasto quanto quello di potere, conoscenza e ricchezza tra la moltitudine della prima e i pochissimi della seconda.
Un altro costitutivo, in questo trentennio di dominio liberista diventato ovvio fino ad annullarne la percezione per la cancellazione del suo contrario, è la dimensione esclusivamente individuale di ciascuna persona. Le conseguenze sono talmente numerose che è persino difficile darne un’esemplificazione significativa, perché amputare l’animale uomo del suo essere polìtes come dicevano nelle pòleis greche, significa amputarlo anche del legame con le generazioni precedenti, che non sia brutalmente biologico, ossia sottrarre al tempo la storia, quindi ridurre la complessità del flusso del tempo a inerte succedersi di attimi: a un eterno presente.
La strada che abbiamo davanti non è quella breve di recuperare a visione il significato di conoscenza, che ne aveva dato Platone, ma quella assai più complicata e dolorosa di principiare dalla coda: praticare insieme con gli altri il nostro non essere un individuo solo.