Elogio di un piccolo seme

Una geografia alimentare tra simbolo, cinema e territorio 

 

di Elio Vernucci

 
Credo che quasi  tutti abbiano visto “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino  Visconti.
E’ considerato forse il suo film più riuscito e uno  dei migliori film italiani e di tutta la cinematografia.  il Morandini lo definisce “Il più generoso dei film di Visconti”. E sicuramente è stato generoso con me perché ha significato una ricerca di libertà  e il passaggio all’età adulta! Per essere più precisi lo sono stati i minuti che vanno dal ventiseiesimo al trentaduesimo. Quando  entra, anzi dovrei dire prorompe, in scena Annie Girardot. E’ semplicemente splendida. Con la sua fresca carnalità sottolineata dal sofisticato uso della fotografia in  bianco e nero di Giuseppe Rotunno, abbagliava la fredda e cupa cucina in cui veniva  accolta e calamitava su di sé  lo sguardo dei fratelli  di Rocco Parondi, nel contempo  catalizzava e canalizzava i primi pruriginosi vaporosi sconosciuti  impulsi di noi adolescenti, e  “Il corpo questo sconosciuto”, come ha detto un grande Analista, “ attraverso le emozioni e le sensazioni  sparse che da esso provengono si presentava alla nostra mente“.
Ma la mia attenzione era richiamata anche da particolari solo apparentemente di contorno, particolari  che  per un occhio superficiale sarebbero apparsi  di semplice “costume” anche se impreziositi dall’accuratezza   viscontiana.
Infatti importante (quasi) al pari della apparizione di Girardot  per me era la visione, intorno a lei, dei fratelli lucani che pulivano, cernevano le lenticchie alacremente, e lo facevano con metodo digitale (nel senso di usare  i polpastrelli, non nel significato odierno opposto all’analogico).
Ora tutto questo vi sembrerà paradossale ma dovete sapere che l’addetto alla pulizia, alla cernita delle lenticchie che due volte la settimana rappresentavano il nostro desinare (pasta e lenticchie) in casa mia ero io. E quel compito sentivo  penoso e umiliante, perché vedevo,  nelle masserie  in  campagna, che sempre quella cernita, considerata cosa di poco conto, rappresentava l’attività lasciata ai più deboli, sia nel  fisico che nell’ intelletto, a chi cioè non poteva svolgere altri lavori più impegnativi che richiedessero tecnica, abilità, manualità più sofisticata. 
Era noioso, faticoso, ma con una responsabilità nascosta e perciò non riconosciuta, una distrazione poteva significare il ricorso all’introvabile e dispendioso dentista. 
Vedere  allora che anche Renato Salvatori e Alain Delon cernevano, e con che abilità!, le lenticchie mi poteva solo far pensare che una possibilità di salvezza esistesse anche per me, anelavo al riscatto, iniziavo a respirare la libertà, avevo trovato, io sì, il lumicino in fondo al tunnel.
Di questi, apparentemente insignificanti,  piccoli passaggi si nutre la crescita e la storia di un uomo. Pirandello diceva: la vita o si vive o si racconta, questa è vita vissuta e raccontata. Azzardo anche una interpretazione per quella scena del film:  nei gesti dei ragazzi (la parte ventrale della mano che rapidamente sparpaglia, allontana uno dall’altro i semi, sceglie e getta via minuscoli frammenti di pietra e terra e con un gesto  repentino, quasi  artigliando, raccoglie i semi così puliti  sotto gli occhi attenti e severamente amorosi della mamma) si racchiudeva la volontà della anziana donna che cercava con tutte le sue energie  di tenere uniti come le dita di una mano  (quasi  diventasse in quei minuti il vecchio Padron ‘Ntoni Malavoglia) i cinque figli più grandi che vedeva sparpagliarsi e perdersi nelle vie di Milano…
La lente della lenticchia mi fa da Lunula (troppo piena di armonie questa parola per non esserne sedotti- e indotti – a rubarla dalla scrittura di un amico)  per accogliere altri ricordi ad essa embricati. Perché la lenticchia è magica, nel senso  che è ricca di simboli e lo deve essere per forza se fa compagnia all’uomo, al suo sostentamento nelle condizioni ambientali più difficili, da migliaia di anni, praticamente da quando l’uomo ha per amico il cane.
Sapete che è una leguminosa, la più antica “addomesticata”, una pianticella che crescendo dà stupore per i suoi cangiamenti, dal verde cupo al verde tenero al luminoso fino a esplodere in un fiore color pervinca che rende i campi simili alle distese di fiordalisi dell’Amiata. E fiorisce anche nei luoghi più spogli e avari  e, più della ginestra, è “contenta dei deserti  e dell’erme contrade”, e ogni suo baccellino contiene solamente e sempre due piccoli soli, due piccoli semi perfettamente rotondi e schiacciati, due lenticole rossastre scure, sbarazzine come due efelidi sulle gote di una ragazzina irlandese. Pronti a profferirsi, si direbbe in Maremma,  come miglior simbolo dell’amor coniugale,  della condivisione, del legame, della fraternità, e soprattutto dell’amicizia. E altri simboli ancora, tutti mangiano le lenticchie a San Silvestro, e tutti sanno perché.
Da Alatri, terra della mia prima giovinezza,  mi viene un ricordo di un’antica e quasi sconosciuta  amicizia. Alatri ha avuto molti figli (e nipoti) illustri, da  Stefano (Stephane) Grappelli, sicuramente il più leggero  e elegante violinista jazz (amico e collaboratore del mitico Django Reinhardt ) di cui  Paola Rolletta ha tradotto e curato la ricca autobiografia, ricca di arpeggi e glissati di vita, a Luigi Pietrobono, ricordato anche da Borges- scusate se è poco- padre scolopio, famoso per i sui studi su Dante  e su Pascoli. Di Pascoli fu confidente e amico, di un’amicizia gelosa. Come di una proprietà da difendere. E ognuno fu strenuo difensore soprattutto verso le stroncature dei critici nei confronti  delle opere dell’altro. Addirittura Pietrobono non si intimorì di far diga  all’onnipotente Benedetto Croce. E ognuno fu consolatore degli affanni quotidiani dell’altro.   E Padre Luigi inviava a Pascoli i prodotti della sua silvipastorale  terra  ciociara, formaggio, lenticchie e vino. Vino che Pascoli conservava per poterlo bere  con l’amico aspettando che lo venisse a trovare a Barga, e lo ringraziava ovviamente in latino , A Luigi diventava“Ad Aloisium”.  E a proposito di amicizia  ho avuto recentemente l’avventura di condividere un lutto con un mio amico ebreo. E così ho appreso che per tutta la settimana successiva all’evento i vicini di casa offrono e portano ai parenti afflitti il pranzo e tra le pietanze deve esserci incluso un piatto di lenticchie. E’ un simbolo del lutto. Il piccolo seme continua a srotolare i suoi significati. Dicono i miei amici ebrei perché le lenticchie  sono circolari e rappresentano così l’alfa e l’omega, cioè contengono insieme l’inizio e la fine. Questa cura dei vicini è chiamata “Consolazione” come da noi al Sud è il “ Consòlo”  ( lo ritrovate ne  L’Oro di Napoli di Marotta o  nel film di De Sica).
Quando, nel più  bel romanzo russo, Kutùzov, prima della battaglia di Borodinò ,  si presenta nella casa che dovrà ospitarlo la notte, la padrona,  emozionata , lo riceve con il sale e il pane  simboli di pace e accoglienza. 
Quando, arrivato in Toscana, mi sono presentato in casa  dei miei futuri suoceri,  sospettando-non vedendoli emozionati- una loro non perfetta conoscenza  dei grandi romanzi russi, per farmi accogliere ho  portato io, nelle mie mani, due prodotti della terra da cui provenivo, l’origano e le lenticchie  (che  da noi sono  piccolissime e nere). Di ambedue, origano e lenticchie,  con mio sommo stupore non sospettavano l’esistenza, anzi suscitavano una larvata diffidenza. La semplice, schietta pasta e lenticchie , primo pasto da me preparato,  non ebbe infatti l’accoglienza che meritatamente mi aspettavo.
Allora  cercai di unire le montagne del Molise con il mare di Maremma. La prima contaminazione con i prodotti del mare , e che  ebbe i primi timidi riscontri positivi,  fu  un piatto di spaghetti alle vongole in cui usavo l’origano al posto del prezzemolo. Il successo crebbe quando iniziai a impratichirmi con il polpo, i totani e i gamberi

Rapidamente  scrivo le ricette che sono semplicissime.
Per pasta e lenticchie: si prendono 250 grammi di lenticchie secche, anche se ora non contengono quasi mai terra e pietruzze io, per atavica abitudine, faccio sempre una cernita rapida. Senza metterle a bagno come invece si fa per gli altri legumi,  dopo averle ben lavate si mettono in acqua fredda che le copra di due dita, si fanno bollire piano per una ventina di minuti. Cinque minuti prima di spegnere il fuoco si aggiunge il sale , una spolverata di origano e due spicchi d’aglio . Fatto. Si passano, togliendo l’aglio, al passaverdure e ci si aggiunge la pasta  già lessata (io metto spaghetti tagliati corti) e un  filo d’olio crudo.
Polpo e lenticchie: sul passato di lenticchie, reso un po’ più denso, quasi una vellutata, facendo bollire insieme ai legumi una piccola patata, si adagia   il polpo  del Canale lessato a regola d’arte, tagliato  a fette in obliquo come fanno in Galizia e una costa di sedano crudo tagliato a pezzettini (dadolata? Che brutto!).  la stessa vellutata adornata di totani alla griglia. Ovverosia si puliscono due totani di porzione,  lunghi 15 cm circa,per commensale , su cui si fanno tre, quattro  tagli longitudinali in superficie ( e per un attimo vi sentirete emuli del grande  Fontana) facendoli solo indorare  sulla piastra caldissima,   che rimangano  morbidi; sale e  un filo di olio extravergine dopo averli adagiati sulle lenticchie.                                                                                                      Con i gamberi. Pulire i gamberi lasciando solo la coda attaccata al corpo, con le parti eliminate fate un brodo in cui farete cuocere, a fuoco bassissimo, i gamberi con  qualche goccia d’olio e sedano tagliato a pezzettini solo per due minuti, adagiatene  a raggiera 12 su ogni piatto dove avrete già posto la vellutata di lenticchie, un filo d’olio. Con 12 potrete simulare un orologio.  Fa un discreto effetto, con poca spesa, la sera di San Silvestro. E l’unione tra lenticchia molisana e mare di Maremma diventa perfetta. Le due lenticole si uniscono finalmente nella Lunula

Un’ultima considerazione. Le lenticchie sono molto coltivate nei luoghi arsi e petrosi potendo crescere lì, come la ginestra di Leopardi, dove altre colture stenterebbero a vivere, ma se trova terreni migliori non li snobba anzi gioisce e ne trae piacere… Sono molti i luoghi della Maremma collinari e non  che rimangono semiabbandonati  perché non adatti al nobile olivo o alla vite diventata sussiegosa ostentatrice dell’acronimo  DDCG. Terreni lasciati pertanto solo alle pur utilissime greggi.
Ecco, penso che la coltura delle lenticchie potrebbe dare un nuovo impulso positivo di arricchimento  alla diversificazione agricola. Alternandola magari  al farro.
Accogliere a volte può voler dire rinascita. E chissà se là dove si è lasciata la terra quasi desolata  intorno a piccoli paesi   che sembrano fatalmente destinati  a uno spopolamento inarrestabile, accogliere una piccola antica semente protetta da un dio minore non possa avere del miracoloso. Penso a zone che circondano Montieri, Larderello, Canneto,  Monteverdi,  Seggiano. E  troverebbe sicuramente la possibilità di essere usata e consumata in Toscana. Pensate anche alla luminosa fioritura dei campi di lenticchie che pur non arrivando alle famose fioriture  della lavanda di Provenza non se ne fa intimidire e può rappresentare un’attrattiva ulteriore, tra le infinite bellezze maremmane, per turisti e fotografi.
Qualcosa già è stata intrapresa. Io ora uso, se non ho le mie lenticchie di San Giuliano del Molise, le ottime lenticchie dell’Azienda Agricola Parmoleto di  Castel del Piano o quelle di Pitigliano