I Sustainable Development Goals in musica
di Marco Giovagnoli
Gli SDGs – gli Obiettivi di sviluppo sostenibile per il 2030 – possono essere letti in vario modo, come un tentativo ragionevole di porsi dei traguardi per migliorare la vita in questo mondo, oppure come un libro dei sogni che certifica l’impossibilità di farlo (in fondo sono decenni che le istituzioni internazionali si pongono obiettivi puntualmente disattesi), o ancora come un elenco di ciò che minaccia o è minacciato a livello planetario, e un repertorio di possibili soluzioni.
Compongono in ogni caso una matrice di questioni che generano riflessioni sullo ‘stato delle cose’ mondiale. Un sito – https://sdgs.un.org/goals - elenca puntualmente successi e fallimenti, iniziative e azioni organizzative, misure da intraprendere etc. La situazione non è rosea: nel Rapporto del 2 maggio 2024 l’ONU sottolinea come “The 2024 progress assessment reveals the world is severely off-track to achieve the 2030 Agenda. […] out of 135 targets with trend data and additional insights from custodian agencies, only 17% are progressing as expected to be achieved by 2030. Nearly half (48%) exhibit moderate to severe deviations from the desired trajectory, with 30% showing marginal progress and 18% indicating moderate progress. Alarmingly, 18% have stagnated, and 17% have regressed below the 2015 baseline levels.”
La loro lettura è anche un percorso diacronico sul succedersi, nelle varie epoche culturali, di temi ed urgenze, alcune di lunga data, come la piaga della fame, altre più recenti, come il cambiamento climatico o il consumo responsabile; ci sono i ‘pilastri’ del welfare – istruzione, sanità – come anche le questioni di genere, e sono ampiamente rappresentate le sfide ambientali.
Non sorprende dunque che la sensibilità degli artisti, e nello specifico dei musicisti, abbia da sempre intercettato queste tensioni e le abbia trasformate in riflessioni intimistiche o anche in denunce pubbliche e ‘politiche’, anticipando dunque qualsiasi package di obiettivi di volta in volta posti; e non sorprende neanche constatare come la quantità di materiale sonoro prodotta sia enorme, anche se, com’è intuibile, vi sono alcune tematiche per così dire più ‘attenzionate’ di altre – come la guerra e la pace, il razzismo, i diritti civili. Scegliere dunque un brano che faccia da ‘colonna sonora’ agli obiettivi è cosa ardua e assolutamente parziale, e sceglierne tra i meno ‘scontati’ ancor di più: ovvio che indicare Imagine di John Lennon basterebbe a coprire un numero consistente di SDGs, così come è probabile che Bob Dylan abbia nella sua sterminata produzione la probabilità di aver scritto più brani per ciascun obiettivo. Anche l’affiliazione generazionale dello scrivente determina una scelta preliminare, concentrandosi su un periodo musicale agée (e su alcuni, pochi generi) che molto probabilmente è ignoto a gran parte delle ultime generazioni (e viceversa, dunque certamente un’altra grande quantità di materiale è a noi poco nota o del tutto sconosciuta). Ma l’intento non è filologico, quindi serenamente nel mare magnum della musica si pescano alcuni, tra i milioni, dei brani che altro non sono, in questa sede, che la scusa per questo parzialissimo esperimento di unione tra il sacro e il profano e che attinge alla musica prodotta al di fuori del nostro Paese. In aggiunta, non tutti gli Obiettivi vengono qui presi in considerazione.
Per il primo degli obiettivi, No poverty (usiamo i titoli in inglese), proponiamo due povertà, una più ‘classica’, quella ad esempio descritta da Work Song. Anche se il titolo riecheggia un genere, quello dei canti di lavoro ed in particolare quello della schiavitù negli Stati Uniti, nel 1960 venne scritto uno standard jazz con questo titolo da Nat Adderley, fratello di ‘Cannonball’ Adderley, con un testo successivamente scritto da Oscar Brown. La fame e la povertà degli Afroamericani negli States mai del tutto allontanatisi dal loro passato schiavista e la forbice sociale tra bianchi e neri porta alla disperazione e al delitto. Nel 1961 Nina Simone lo incise in una grande versione nel suo album Forbidden Fruit, cantandolo poi in numerosissime occasioni. Julian ‘Cannonball’ Adderley, gigante del sassofono jazz, ce lo regala in versione strumentale, così come The Paul Butterfield Blues Band, nel 1968, nell’album East West, in una versione decisamente rock-blues.
Ma poi ci sono le ‘nuove povertà’, come quelle degli anziani soli, quelli al cui funerale presenzia solo il prete: tra i diritti di ciascuno dovrebbe esserci quello di non rimanere mai solo, a meno che non lo si voglia. Il dramma della solitudine, specie per le persone anziane, o della marginalità, o della depressione è ricorrente in alcuni generi – si pensi al blues – ma molto meno nella musica pop. Ancor meno tra quegli artisti che piacevano molto per una certa ’leggerezza’ nei testi e spensieratezza nella musica. I Beatles non si sono posti il problema: in un brano tra i più celebri del quartetto (Eleanor Rigby, compare sull’album Revolver, 1966) non solo si uniscono melodicità e una costruzione orchestrale, ma le solitudini parallele di Eleanor e di Padre McKenzie si incroceranno alla morte di lei, in una chiesa vuota, ad un funerale deserto. Vivere e morire da soli: decisamente un tema ‘difficile’ da proporre ad un pubblico giovane. Molte le speculazioni sulla esistenza reale o meno di Eleanor, di poco rilievo rispetto alla potenza evocativa del brano. Eleanor Rigby la ritroviamo anche nella colonna sonora di quel capolavoro assoluto che è il film Yellow Submarine. Moltissime (come per innumerevoli altri brani beatlesiani) le cover, alcune di nomi dell’Olimpo musicale come Ray Charles e Aretha Franklin, mentre il solito Celentano ce la ripropone con il titolo Ma come fa la gente sola. Da comparare con la versione di Augusto Daolio, coi Nomadi.
Nelle diverse iniziative globali per la promozione di un ordine mondiale più giusto, il tema della fame e del suo eradicamento ha sempre avuto un ruolo centrale; poiché, come è noto, spesso l’inferno è lastricato di buone intenzioni, va segnalato come alcune di queste ‘campagne’ contro la fame nel mondo si sono rivelate nella migliore delle ipotesi inutili, nella peggiore addirittura dannose e controproducenti.
L’obiettivo 2, (Zero hunger), tanto ambizioso quanto indispensabile, è stato perseguito nella storia sia con programmi concreti, sia con iniziative spot, velleitarie e caratterizzate da una certa superficialità, fatta ovviamente salva la buona fede di partenza di tanti. A questa categoria vanno iscritti certamente due eventi concepiti all’interno dello show business musicale, ossia il progetto ‘Band Aid’ di Bob Geldof, che si è concretizzato in una raccolta fondi per l’Etiopia affamata (la gestione delle somme è stata sottoposta a feroci critiche) con il brano Do they know it’s Christmas (1984), dove attorno al ritornello (sic!) “Nutri il mondo, fagli sapere che è ancora periodo di Natale” fioriscono perle come “E non ci sarà neve in Africa questo Natale” oppure “Beh, stanotte ringrazia Dio che siano loro [a schiattare, ndr] e non tu”.
Il circo musicale si ripete con la ben più ambiziosa epopea di ‘USA for Africa’, dove 45 protagonisti ai massimi livelli della scena musicale (soprattutto statunitense, da Bob Dylan a Bruce Springsteen, da Diana Ross a Ray Charles e così via) degli anni Ottanta del Novecento incidono un brano scritto per l’occasione da Michael Jackson e Lionel Ritchie e prodotto dal grande produttore e musicista Quincy Jones, recentemente scomparso. We are the world, del 1985, è il titolo della canzone che è risultata tra le più vendute nella storia del pop a fini benefici, anche se musicalmente non sembra un pezzo da storia della musica. Quest’anno, il 2024, è uscito un interessante documentario dal titolo ‘We Are the World: la notte che ha cambiato il pop’, che testimonia il (faticoso) processo di realizzazione dell’evento. Dei 17 SDGs – ma ovviamente la colpa non la si può attribuire a queste iniziative estemporanee – il secondo è quello con le maggiori criticità, secondo il report sopra citato.
“Senza un’istruzione tanto vale che tu sia morto”, così apostrofa James Brown uno dei tanti ragazzi del ghetto destinati a finir male. Nella sua veste di ‘leader di comunità’ (che ritorna spesso nei pezzi del profeta del funky), Brown mette in musica un testo di Burt Jones col titolo estremamente significativo di Don’t be a Drop-out (1966) ed incoraggia i suoi ragazzi a non cedere alla marginalità e a darsi da fare; cosa non facile, se manca il contesto educativo di supporto (come ben evidenzia l’obiettivo 4, Quality Education), ma certo occorre anche una motivazione individuale, qui sostenuta dalla comunità. Concetto che anche il leggendario Bunny Wailer (cantante e percussionista il cui vero nome era Neville O'Riley Livingston, per un periodo nei Wailers con Bob Marley) ripete nel suo quasi rappeggiante Back to school (1982: “non essere stupido, non essere uno scansafatiche, non limitarti a passare il tempo e scoppiare gomme da masticare”, e quindi bisogna tornare a scuola). Ovviamente la qualità educativa molto ha a che fare con la qualità dell’istituzione, e tra i brani più noti che ce lo ricorda c’è certamente Another brick in the wall (1979), uno spaccato del volto repressivo della formazione e del germe di rivolta che ogni oppressione porta con sé, che i Pink Floyd inseriscono nel loro straceleberrimo album The Wall.
L’obiettivo 5 (Gender equality) è, in particolare per la musica contemporanea, un terreno un po’ minato, muovendosi il rock (blues, pop, soul, rap etc…) tra rivendicazioni egualitarie anche radicali e manifesti del politicamente scorrettissimo (almeno oggi, quindi va fatto per molti versi un gran lavoro di ‘contestualizzazione’). Come non ricordare Sweet little sixteen (1958)?
In tempi di politically correctness il pezzo, tra i più famosi, di Chuck Berry qualche problemino potrebbe averlo. La ‘piccola dolce sedicenne’ che nei fine settimana mette su ‘tacchi alti abiti stretti e rossetto sulle labbra’ e con cui tutti, ma proprio tutti, vogliono ballare ai concerti, il giorno dopo ritorna scolaretta che implora i genitori di lasciarla andare a sentire il prossimo gruppo di rock’n’roll in giro per gli States. Oggi la tutela dei minori (scontando l’ipocrisia della società consumistica e ipersessualizzata) vi porrebbe il proprio sguardo occhiuto. Allora, società ben più beghina, c’erano le picconate del rock’n’roll, che pure qualche guaio a riguardo hanno causato, ad esempio al grande Jerry Lee Lewis. Brano rifatto praticamente da tutti i big, Beatles compresi. Segnaliamo, per coerenza con il mood del rock’n’roll circus, quella dei Rolling Stones, altri esperti in materia. Coda polemica: i Beach Boys nel 1963 pubblicano Surfin’ USA copiando di fatto il pezzo, e perdono la causa con Chuck Berry. Oppure va citato Hey Joe (1967), pezzo scritto molto prima del 1967 e con plurime paternità e maternità, comunque attribuito a Billy Roberts (1962) che però l’aveva di fatto rifatta a partire da un pezzo di Niela Miller, cantautrice che incide il pezzo con il titolo Baby, please don’t go to town. È talmente musicalmente bello che a volte ci si dimentica che parla di un ‘delitto d’onore’(non nel pezzo di Niela, ovviamente), ossia un uomo uccide la sua donna perché è stata vista con un altro. Un femminicidio, in sostanza. Annunciato (“sto andando a spararle”), poi compiuto (“l’ho ammazzata”) con tanto di fuga finale verso il Messico. Un pezzo dalle innumerevoli cover (si dice più di mille) ma che nel nostro immaginario rimane legato a Jimi Hendrix, che lo inserisce nel suo primo disco con gli Experience e lo suona in occasioni che contano, una tra tutte alla fine della tre giorni di Woodstock. La versione di Hendrix è un capolavoro, inutile elencare altri artisti, pure enormi; ma dovendone ricordare un’altra versione, rimane nella memoria quella dei Byrds cantata da David Crosby.
Non poteva certo farsi sfuggire la citazione quel repertorio filmico di musica rock che è Forrest Gump. Se parliamo di uguaglianza, da ricordare anche These boots are made for walkin’ (1965), minaccia neanche tanto velata quella che Nancy Sinatra rivolge ad un lui ‘solo chiacchiere e distintivo’ (per dirla con Robert De Niro-Al Capone ne Gli intoccabili), tante promesse e niente fatti. Per cui gli stivali si possono usare, oltre che per camminare, anche per calpestare il malcapitato. Pensato originariamente per una voce maschile (il pezzo è di Lee Hazlewood, compagno di musica di Nancy), anche se eravamo lontani dai vari #metoo il testo sarebbe suonato comunque come una violenza sulla donna; il contrario invece funziona molto bene. Il pezzo ha avuto una straordinaria fortuna, dovuta sia alla felicissima costruzione musicale (lo si riconosce sin dalla prima nota, anche grazie alla linea di basso discendente), sia al video di Nancy Sinatra con gli stivali neri e un corpo di ballo molto sixties; papà Frank lo ha cantato qualche volta, Kubrick lo inserisce in Full Metal Jacket (i soldati in Vietnam lo cantavano tra un napalm e l’altro) e poi se ne appropriano davvero tutti, con diverse fortune e riuscita. I Megadeth, per gli amanti delle sensazioni forti, ne fanno una versione modificata (stracensurata) con un testo che oggi definiremmo trap, ignorando la cautela del come suona il testo (e le aggiunte…) detto da un uomo. Pure Celentano lo rifà, ne cambia il testo e ne esce un pezzo tipico del suo mood moraleggiante (titolo: Bisogna far qualcosa). Dalle parti del movimento LGBTQ+ Rebel Rebel (1974) non sfigurerebbe come inno: “Tua madre ha una gran confusione in testa, non sa bene se sei un ragazzo o una ragazza”. Il primo verso dà già l’idea di ciò di cui stiamo parlando, ossia il diritto ad essere ciò che si vuole, di vestirsi come si vuole, di non badare tanto alle apparenze e soprattutto di essere ‘contro’. Lo canta David Bowie, l’album è Diamond Dogs e il tutto dà una certa credibilità a questo manifesto della vita libera e incasinata. Musicalmente tra la fine del glam e l’inizio del punk, con un omaggio musicale esplicito ai Rolling Stones, un brano che non si fa fatica a ricordare. Il pezzo è stato reinterpretato da numerosissimi artisti più o meno noti, tra i quali alcune band commerciali degli anni Ottanta che non a caso giocavano molto con l’ambivalenza sessuale come i Dead or Alive. Lo interpreta anche Bruce Springsteen, coi riff di chitarra di Little Steven.
Anche l’obiettivo 8, (Decent work and Economic growth), viene richiamato da innumerevoli brani, tra in quali ci piace ricordare qui Pay me my money down: la ballata è certamente antica, forse della fine del 1800 nell’ambito degli schiavi appena (formalmente) liberati dopo la guerra civile negli USA, forse anche precedente, ma in ogni caso parla di diritti di base dei lavoratori, del giusto salario, della richiesta di giustizia sociale, spesso soffocata nel sangue. Nel 1955 i Weavers, gruppo folk nel quale suonava Pete Seeger, ne fecero una work song divenuta presto un inno per i diritti civili. Nel 2006 torna alla ribalta grazie ancora una volta a Bruce Springsteen, che la inserisce nel suo The Seeger Sessions, in una versione sontuosa. Ma c’è, nell’idea di un lavoro dignitoso, l’organizzazione sindacale (oggi ancora largamente osteggiata nel mondo e anche da qualcuno vicino casa nostra…) e l’ostilità padronale sempre presente nella storia dei diritti dei lavoratori. Solitamente la storia si ripete sempre due volte, la prima volta come tragedia e la seconda in farsa, secondo il celebre motto di Karl Marx, ma a volte la storia può ripetersi nel medesimo modo tragico.
Lo scontro tra i minatori inglesi (dello Yorkshire) e Margaret Thatcher del 1984-85, che segnò la sconfitta dei primi (con morti, licenziamenti e processi) e di fatto contribuì al successo dell’ordine mondiale neoliberista e alla fine del movimento sindacale in UK, ebbe un tragico antecedente nel 1926, sempre nel Regno Unito, quando lo sciopero contro le riduzioni salariali deciso dai proprietari delle miniere (soprattutto nel sud del Galles) venne stroncato dall’azione congiunta di governo (conservatore), polizia e milizie paramilitari di estrema destra, portando alla resa dei lavoratori e a una drammatica riduzione dei già miseri salari, oltre a denunce e licenziamenti. La storia venne raccontata dal poeta gallese Idris Davies nel 1938 e, musicata da Pete Seeger, divenne, in The Bells of Rhymney, del 1965, un inno per i diritti civili negli anni Sessanta. Il pezzo è famoso soprattutto nell’interpretazione dei Byrds nel loro album Mr. Tambourine Man. In Italia, il brano è stato cantato dai Profeti nell’album Bambina sola.
Se oggi l’imperativo è pensare e progettare città sostenibili, come indica l’obiettivo 11 (Sustainable cities and communities), soprattutto nell’epoca del progressivo inurbamento della popolazione mondiale e della criticità ambientale urbana, nel Novecento il fascino (anche dannato) della metropoli che cresce convulsamente è ancora in gran parte intatto. Essere costretti a vivere anche nel luogo più squallido era una opzione praticata da chi si sentiva senza alternative e l’equilibrio tra il radicamento territoriale e il desiderio di fuga dalla città era un equilibrio precario. È questo che indica la famosa scena del film ‘The Warriors’, quando dopo una notte terribile passata a cercare di sopravvivere agli attacchi delle altre gang, gli ‘eroi’ fanno ritorno, in un’alba livida, al proprio quartiere, Coney Island, New York: “Guarda che posto di merda, e abbiamo combattuto tutta la notte per ritornarci. Bisognerebbe andarsene per sempre”, recitano due dei protagonisti di fronte alla teoria di edifici grigi, anonimi e ancora assonnati della megalopoli statunitense. Nella colonna sonora del film spicca un pezzo di Joe Walsh, chitarrista passato anche per gli Eagles, che si intitola proprio In the city (1979), una città dove nulla è sostenibile e dove non c’è senso di comunità: “Sono nato qui in città, con le spalle al muro. Nulla cresce e la vita non è molto bella, perché non c'è nessuno a prenderti quando cadi”.
Per l’obiettivo 13 (Climate action) abbiamo scelto un brano che non parla direttamente di cambiamento climatico, ma descrive bene quel che succederà quando, continuando l’inazione attuale, sarà troppo tardi per porvi rimedio. Il pezzo è After the gold rush, di Neil Young (1970). In un album già di per sé meraviglioso, la title track è uno dei pezzi più famosi ed amati del musicista di origini canadesi. Una storia distopica, di un passato felice in un pianeta che gli esseri umani hanno progressivamente devastato (“guarda com'è ridotta Madre Natura negli anni Settanta”, verso poi progressivamente mutato nei live fino diventare “look at Mother Nature on the run in the 21st Century”). Alla fine, dopo aver minato la vita sulla Terra, il solito manipolo di ‘Prescelti’ si imbarcherà su un’astronave in cerca di altri mondi da abitare e, forse, devastare ancora, lasciando gli ultimi a morire su un pianeta a sua volta morente (forse la mamma di Elon Musk lo ha sentito mentre lo aveva in grembo e al miliardario gli è rimasto l’imprinting). Tipico finale distopico, alla Dottor Stranamore, scritto da Peter George circa 10 anni prima (1958) e portato al cinema nel 1964 da Stanley Kubrick con un immenso Peter Sellers (ma qui i Prescelti si ficcano sottoterra). Molte ovviamente le cover, tra le quali quella, recente, di una straordinaria Patti Smith, che porta nel suo tour mondiale una versione profonda (l’originale è cantata su una tonalità altissima) e magica. Notevole e delicata anche la versione di tre voci femminili tra le più note della musica statunitense, qui riunite sotto l’etichetta Trio, vale a dire Dolly Parton, Emmylou Harris e Linda Ronstadt.
Life below water, l’obiettivo 14, ci segnala il pericolo di non accorgerci di ciò che avviene in un universo che non è alla portata della nostra vista – l’immensità delle acque – e che quindi rischia di essere ‘sottovalutato’ rispetto alle emergenze ambientali ‘visibili’, quelle sulla superficie emersa; e dunque occorrerebbe mettere in atto misure di tutela e salvaguardia sia della vita vegetale ed animale, sia dell’ecosistema marino nel suo complesso. Anche qui tra i tanti brani possibili ce ne è uno particolare per molti motivi. Il primo è che il gruppo che lo suona, i Beach Boys, non è particolarmente noto per comporre e suonare pezzi ‘impegnati’ nel senso corrente del termine ed anzi esprime pienamente quell’american way of life che si imporrà in tutto l’Occidente e non solo, pur parlando dal versante off californiano. Inoltre, un gruppo noto per lo stile surf (l’album è appunto Surf’s Up) e il richiamo continuo all’acqua come divertimento e come elemento di sfondo dello stile surf, compone un pezzo che avverte di non avvicinarsi all’acqua, perché contaminata dall’inquinamento prodotto dagli esseri umani. Anche in questo caso si avverte l’approccio ingenuo e naif alla crisi ambientale (l’acqua è contaminata da “dentifricio e sapone”), ma certo colpisce la dedica del gruppo al tema ambientale (notevole e minimalista il video). Il pezzo è del 1971, quindi molto dopo i fasti e gli ottimismi della prima era surf e si intitola, significativamente, Don’t go near the water.
E aggiungiamo anche Mercy Mercy Me a completare il trittico ‘ambientale’, dedicando il brano all’obiettivo 15 (Life on land). Ecologia in versione soul, un manifesto dell’ambientalismo anni Settanta firmato da Marvin Gaye ed inserito nell’album What’s going on, con un testo assolutamente lineare e per certi versi scarno, forse ingenuo, ma che divenne un vero e proprio punto di riferimento per il movimento ambientalista (“Dove sono finiti tutti quei cieli blu? Veleno nel vento che viene da Nord, da Est, da Sud e dal mare”). Oltre, ovviamente, alla straordinaria capacità interpretativa di Marvin Gaye. Numerose cover, tra cui una molto raffinata degli Isley Brothers con Carlos Santana.
L’obiettivo 16 (Peace, Justice and Strong Institutions) è forse tra tutti quello nel quale è possibile far confluire una enorme quantità di contributi musicali, di ogni epoca e della stragrande maggioranza dei generi musicali, non foss’altro per le due polarità opposte della guerra e dell’ingiustizia, e va anche detto che la pace nella sua declinazione di ‘assenza di violenza strutturale’ fa certamente riferimento a praticamente tutti gli Obiettivi. Per cui la scelta di un brano rappresentativo è impresa impossibile: da Dona Dona del 1965, cantata tra gli altri da Joan Baez (sulla Shoah, di fatto), a Universal Soldier di Donovan (sempre del 1965), dove praticamente si incita alla diserzione come unico modo di far cessare le guerre; da I come and stand at every door (1966), un bellissimo e drammatico pezzo basato su una poesia del grande (e perseguitato) poeta turco Nazim Ikmet dedicata all’olocausto nucleare di Hiroshima, musicata da Pete Seeger nel 1962 poi divenuta famosa nella versione straordinaria dei Byrds nell’album 5th Dimension, a Fortunate Son, inserito in Willy and the Poor Boys dai Creedence Clearwater Revival, un pezzo sempreverde sulla retorica dell’‘armiamoci e partite’ da parte soprattutto dei ceti privilegiati e dei guerrafondai per procura ed ispirata dal nipote di Eisenhower ai tempi della guerra del Vietnam (ma ricordata, tra gli altri, per un altro imboscato – guerrafondaio – celebre come George W. Bush. Un grande pezzo di r’n’r. con molte cover tra cui ancora quella di John Fogerty assieme a Bruce Springsteen), per non parlare di The Star Spangled Banner (1969), l’inno degli Stati Uniti che diventa, nella esibizione di Jimi Hendrix a Woodstock, uno dei pezzi – senza testo – più impressionanti contro la guerra, un passaggio ineliminabile per ogni rassegna di musica contro la follia bellica. Il pezzo è costellato di feedback che riproducono urla, bombardamenti ed esplosioni (pare che Hendrix non abbia ‘avvertito’ il suo gruppo dell’esecuzione del pezzo). Ma i brani ‘portabandiera’ che abbiamo scelto per questo Obiettivo sono Chimes of Freedom (1964), inserito da Bob Dylan in Another side of Bob Dylan, un magnifico pezzo sulla libertà, con velleità davvero letterarie, al di là del significato politico; ripreso dai Byrds in una cover storica, abbreviata, ed anche da Bruce Springsteen, che la cita come uno dei brani più belli sulla libertà dell’uomo: “Con gli occhi splendenti di sorriso ricordo quando fummo presi in trappola dal non scorrere delle ore perché stavano sospese, mentre ascoltavamo un’ultima volta e guardavamo con un ultimo sguardo incantati e sommersi finché cessò lo scampanìo che suonava per i malati le cui ferite non possono essere lenite, per le schiere dei confusi, accusati, maltrattati, quelli disillusi o peggio e per ogni uomo imprigionato nell'intero universo e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà”; e Masters of War (1963), sempre di Dylan, non fosse altro che per la sua, purtroppo, drammatica attualità con la corsa al riarmo (così richiesta a gran voce dalla ‘pacifica’ Unione Europea). Canzone contro la guerra, ma di più contro i mercanti e gli spacciatori di morte. Nel disco d’esordio “The Freewheelin’ Bob Dylan aggiunge questa vera e propria invettiva ad altri pezzi dedicati al tema ricavandola, nella melodia, dalla bellissima Nottamun Town della cantante folk Jean Ritchie (cui poi pagherà i diritti riconoscendone l’ispirazione). Ovviamente rimane intatta la forza del brano, che venne in un primo tempo considerato da Dylan una sorta di sfogo quasi sfuggito al proprio controllo (tanto da augurare la morte ai Padroni della guerra, tale era l’indignazione contro i guerrafondai che in quel periodo avevano portato il mondo sul limitare della guerra mondiale nucleare – e oggi di nuovo: “E spero che moriate, e che la vostra morte arrivi presto. Seguirò la vostra bara nel pomeriggio opaco, veglierò mentre siete sepolti nel vostro letto di morte e resterò sulla vostra tomba finché sarò sicuro che siete morti”. Dylan non suonerà per molto tempo il pezzo, per poi riprenderlo tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, in piena prima Guerra del Golfo. Molte le cover, una fra tutte quella dei Pearl Jam, ed anche in Italia il pezzo arriva tradotto come L’uomo che sa: piccolo giallo anche qui perché la titolarità della versione viene divisa tra Rudy Assuntino e il cantante anarchico anconetano Franco Damiani. Tuttavia esistono molte altre versioni del pezzo, ad esempio del duo Jonathan & Michelle e addirittura dei Rokes di Shel Shapiro.