Chiamatemi ricercatrice e ora professoressa
Un paio di anni fa, uno stimato collega, nonché carissimo amico, scrisse un post su facebook ringraziandomi per un evento verificatosi forse otto prima. Ero stata invitata dal collega a tenere una relazione ad un convegno e sulla locandina era stato scritto: Donatella Loprieno, Ricercatore Unical.
Al momento della presentazione, davanti ad una aula gremita di studentesse e studenti, colleghi e colleghe, fu reiterato il Donatella Loprieno, ricercatore. Prima di iniziare la mia relazione e ringraziare per l’invito, precisai che non ero un ricercatore ma una ricercatrice.
Qualcuno, forse, si risentì leggermente e altri si lanciarono in risolini imbarazzati. “Ecco la solita femminista”, immagino abbiano pensato.
Passati alcuni anni, evidentemente, al collega/amico costituzionalista, più o meno della mia generazione (classe 1969), si deve essere aperto l’universo del linguaggio di genere e la correttezza, grammatica e politica, della declinazione al femminile delle professioni che a me pareva così immediato e “naturale” da sempre. Così, evidentemente, non era venti anni fa e neanche prima perché io fui proclamata Dottore e non Dottoressa in Scienze economiche e sociali, così come nessuno pensò di proclamarmi Dottoressa di ricerca in Diritto Pubblico comparato. Io, in quel maschile, così fintamente universale e neutro, non mi sono mai sentita inclusa e, anzi, per dirla tutta ne avvertivo la portata escludente e svilente. O meglio, sentivo che quel riferirsi a me in termini maschili stava occultando, nella sfera pubblica, il mio essere donna, sia in termini di sesso biologico che di identità di genere.
Nel corso degli anni, ho molto approfondito gli studi di genere e anche il mondo intorno a me, quello accademico intendo, ha cominciato a mutare lentamente prospettiva e ad acquisire lentamente l’attitudine alla declinazione di genere. Questo processo, invero, è stato molto probabilmente propiziato e accelerato perché all’interno del mio Dipartimento di afferenza (e in quella che fu la mia Facoltà) hanno fatto ricerca e insegnato alcune scienziate sociali (sociologhe, anzitutto) da sempre attive nel movimento femminista e attentissime a trasmettere il loro sapere critico alle nuove generazioni di studentesse.
Ne ricordo una tra le molte: Renate Siebert. Insegnava Sociologia del Mutamento e il testo base si chiamava “Tre generazioni di donne al Sud. È femmina però è bella”. Nonne, madri e figlie in Calabria: da inizio Novecento fino agli anni ’90 del secolo scorso. Ne rimasi incantata e divorai quel bellissimo libro. Gli stralci delle interviste delle nonne altrui richiamavano nella mia mente le parole della madre di mia madre, i suoi racconti di bambina e ragazza in una società contadina della presila cosentina in cui essere femmina e intelligente rendeva quasi impossibile sottrarsi alla subordinazione. La mia bisnonna materna, pur analfabeta, si racconta conoscesse a memoria alcuni libri (tra cui la Chanson de Roland e Tristano e Isotta) avendoli semplicemente ascoltati leggere chissà da chi nelle lunghe notti invernali, a lume di candela. Ho sempre pensato che mia nonna, se avesse potuto studiare, sarebbe diventata una ingegnera. O meglio, se fosse nata quando sono nata io, sarebbe potuta diventare una ingegnera. Per lei era motivo infinito di gioia sapere che le sue nipoti avrebbero potuto studiare ben oltre la terza elementare. Di mia nonna e delle “fimmine” della sua generazione (le sue amiche/cummari) parlai all’esame di Sociologia del mutamento perché sentivo che un filo tenacissimo mi legava a loro guidandomi, in qualche modo, verso l’autonomia di pensiero, prima, ed economica poi. Mi sono immaginata anello di una sorta di catena del tempo e mi sono data anche un compito da assolvere per le generazioni di studentesse che anno dopo anno frequentano le mie lezioni di diritto costituzionale. Far conoscere loro che non di soli padri è figlia la nostra Costituzione repubblicana ma di altrettante, quasi misconosciute fino ad un passato assai recente, donne: le madri costituenti. Ventuno donne nate tra la fine dell’Ottocento e il primo ventennio del Novecento, spesso laureate (in Lettere classiche, ovviamente), quasi tutte attive, certo con ruoli diversi, nella Resistenza sia che provenissero dalle file del Partito comunista che della Democrazia cristiana. A loro, a quella generazione di donne che taluno chiamava le “deputatesse” le nostre generazioni devono molto specie per quanto riguarda il metodo con cui scelsero di operare: compatte e coese quando si trattava di discutere delle questioni femminili (la parità giuridica, la tutela della maternità, il diritto di accedere a qualsiasi carica pubblica), maggiormente legate ai partiti di provenienza quando si trattava di discutere di questioni “generali”.
Della più giovane delle madri costituenti, Teresa Mattei, la più giovane delle costituenti (fu eletta ad appena 25 anni), Togliatti diceva essere “una maledetta anarchica”. Evidentemente il suo spirito libertario mal si conciliava con un bigottismo di fondo, e un certo maschilismo, del più importante partito della Sinistra.