Resistere, restare, fare comunità

di Enzo Scandurra

Resistere è la parola nuova di questo secolo; resistere si può declinare con sopravvivere in un’epoca nella quale la guerra, il genocidio, le deportazioni di massa sono tornate e promettono di estendersi e intensificarsi attraverso l’olocausto nucleare o il collasso climatico.

Prendiamo atto che tutti i capovolgimenti avvenuti con la violenza (le rivoluzioni) hanno stabilito un nuovo ordine ma, infine, sono falliti. In un momento storico come l’attuale, caratterizzato da una ripresa del fascismo e dalle atrocità delle guerre - usando una categoria non politica, dalla vittoria del Male sul Bene -: è un’opzione praticabile quella di limitarsi a resistere alla barbarie dilagante? O si tratta di rassegnazione?

Perché tutti i movimenti, per la pace, per il cambiamento, sono destinati a soccombere di fronte al dilagare del neoliberismo, dello smantellamento dello stato sociale, delle disuguaglianze sempre più aspre, delle povertà, del dilagare di un “io” di fronte a un “noi”.
Le parole di Papa Francesco: alzare la bandiera bianca per negoziare, sono parole rivoluzionarie, di amore, di pietà. Di fronte all’inevitabilità della guerra, e dei morti, negoziare introduce una possibile altra via: quella di far prevalere la vita rispetto alla morte, l’accordo rispetto alla guerra, l’amore rispetto all’odio. Tutt’altro che resa, che sottomissione al potere del nemico, come affermano, in mala fede, i media e i Capi di Stato di tutto il mondo. Si tratta di una concezione alta che dà onore e forza al più debole dei duellanti.

Quante vite, quante sofferenze potrebbero essere risparmiate con questo gesto di dignitosa umiltà? Chi confonde il negoziare con la resa è chi non partecipa alla guerra, ai suoi atroci massacri e guarda il campo di battaglia dall’alto di una collina, o, peggio, è chi ha interesse a fomentarla, a ricavarne profitto. Così sono gli Stati schierati perché il conflitto continui, fino al paradosso: che con una mano distribuiscono armi e con l’altra aiuti umanitari, perché la fabbrica di armi continui la sua mortifera produzione
Resta - afferma Bifo - l’opzione praticabile dell’esodo, la forma di lotta più antica contro il Potere. Esodo come altra forma di rivoluzione: sottrarsi dai modelli di lavoro, di vita, di sfruttamento, di repressione e di violenza e soprattutto di guerra. Un esempio è il film di Wim Wenders, Perfect days, dove il protagonista – dopo le dimissioni da un lavoro ben remunerato ma alienante - sembra felice del suo lavoro umile di chi pulisce le toilette pubbliche di Tokyo, e sorride al sole tra le foglie; la sua è una rinuncia alla socialità, alla lotta, una resa al mondo così com’è? O un esodo dalle barbarie quotidiane?

Ha qualche efficacia l’azione volontaria? E più radicalmente: è possibile l’azione volontaria? ma alla fine dobbiamo porci la domanda più difficile: è possibile un pensiero felice nell’orizzonte dell’estinzione? Se riusciamo a rispondere sì a questa domanda, allora dobbiamo riformulare il ruolo dell’azione consapevole nella prospettiva auspicabile di un esodo di comunità autonome capaci di porsi il problema dell’autodifesa in un’epoca che si annuncia all’insegna della guerra civile globale[1]”.

Vivere con la prospettiva di una sesta estinzione può non generare paura, panico, bensì consapevolezza di aver superato i limiti come l’Odisseo quando varcò le colonne d’Ercole. Ma vivere come? Questa è la domanda. Rinunciando alle mode effimere, al consumismo, allo spreco di risorse, con parsimonia e sobrietà.
Molti giovani hanno adottato questo tipo di resistenza, abitando paesi e luoghi abbandonati, coltivando la terra, vivendo in comunità, lontano dai modelli economici dominanti. Di queste resistenze ne hanno ben scritto antropologi come Vito Teti (Restanza, non significa resistere?), storici come Rossano Pazzagli (l’amore per i luoghi) e territorialisti come Alberto Magnaghi (contro l’invadenza metropolitana). Altri hanno parlato di ritorno ai borghi con un linguaggio da romanticismo cinico, magari con l’obiettivo di nuovi terreni da depredare per continuare a fare profitti.

Comunità dovrebbe essere l’altra parola che fa rima con resistere. Comunità agricole che hanno legami profondi con il territorio, un “territorio che il popolo aveva coltivato, umanizzato, strappato all’anonimia e alla selvatichezza trasformato in un “paesaggio culturale” fatto di relazioni umane, usi, valori, tradizioni, modi di pensare, di cucinare, di abitare, di vivere, di narrare, di mantenere ambienti, risorse e paesaggi, di costruire forme religiose e giuridiche”[2].
Un territorio, una terra che è diventata campo di battaglia che accoglie morti, fratelli duellanti, un territorio saccheggiato, vilipeso, mortificato, violentato. Come la biosfera danneggiata che oscilla pericolosamente intorno alla sua posizione di equilibrio, pronta a scacciare la specie aggressiva che gioca, una hybrispotentissima, a fare Dio.
Cambiare il mondo è la più bella delle avventure che l’uomo possa augurarsi, ora più che mai necessaria.


[1] F. Bifo Berardi, Il giorno prima del diluvio, su Effimera, 11 settembre 2020[2] L. Marchetti, Le madri, la Matria, la Natura Madre, in (a cura di T. Drago, E. Scandurra), Cambiamento o Catastrofe? La specie umana al bivio, p. 213