Si ricomincia sempre da una resistenza

di Paolo Favilli

Elemento fondamentale di questo nostro lungo presente è  il fatto che il rapporto di forza tra la meccanica dominante della fase attuale del processo di accumulazione e le forze in grado di opporvisi ha raggiunto uno squilibrio siffatto che la prima può imporsi quasi senza ostacoli. Ciò non significa che l’antitesi si sia dissolta, né, soprattutto siano scomparse le condizioni per una sua ricostruzione. Facciamo fatica a individuarne momenti di solido perché è diventata «liquida»,  ha perduto il nucleo centrale aggregante: la classe operaia dell’Occidente industriale.
Gli operai non sono scomparsi, anzi il loro numero complessivo è aumentato negli ultimi trent’anni, diluendesi contemporaneamente nell’ambito del capitalismo-mondo.
In tale contesto si manifesta la compresenza nella medesima temporalità di modi di produzione del plusvalore tipici di temporalità diverse. Una situazione  che si propone oggi in orizzonti sempre più ampi sia dal punto di vista spaziale che temporale.
«È facile prendere la descrizione delle condizioni di lavoro oggi, per esempio nelle fabbriche di elettronica a Shenzhen, nelle industrie tessili del Bangladesh o negli sweat-shop di Los Angeles e inserirle nel classico capitolo di Marx sulla “giornata lavorativa” nel Capitale e non notare la differenza. È facile in modo sconvolgente prendere le condizioni di vita delle classi lavoratrici, degli emarginati e dei disoccupati di Lisbona, San Paolo e Jakarta e metterle accanto alla classica descrizione engelsiana del 1844 de La situazione della classe operaia in Inghilterra e trovarvi poca differenza sostanziale»[1].
Molti studiosi hanno sottolineato il fatto che oggi ci confrontiamo con le stesse problematiche emerse alla fine del diciottesimo secolo.
Nelle profonde differenze tra queste due diverse temporalità c’è però comune l’imprescindibile punto di partenza, allora per la costruzione dell’antitesi, ora per la sua ricostruzione: la resistenza.
Percorsi e modalità di aggregazione certamente diversi, ma senza la «resistenza» non si inizia nessun percorso.
Pure allora la resistenza iniziò contro il nuovo mondo disumanizzante, e divenne anche opposizione culturale all’insieme teorico che quel mondo rispecchiava e giustificava. Questo e non altro era il contesto da cui necessariamente sarebbe nata l’esigenza di un «mondo diverso», e dunque l’esigenza  di «cambiare il mondo».
Per quanto concerne questo aspetto, le analogie tra la fase storica che stiamo vivendo e quella che, due secoli fa, vide nascere pressoché assieme Scienza Economica e moderno capitalismo industriale, sono davvero impressionanti. I criteri dell’affermazione di una razionalità economica che diventa anche spiegazione e norma di nuovi rapporti sociali sono strettamente coniugati al dispiegarsi di un mutamento strutturale di carattere epocale.
Non c’è dubbio che l’attuale tendenza alla distruzione dello stato sociale, od alla sua configurazione come stato sociale minimo, abbia fortissime analogie con la lotta contro lo spirito di Speenhamland, lotta condotta con tanta energia nei primi decenni dell’Ottocento ed infine, nel 1834,  vittoriosa. A Speenhamland nel 1795 i magistrati del Berkshire avevano legato i sussidi salariali per i lavoratori poveri all’evoluzione del prezzo del pane. Una sorta di scala mobile che trasformava una parte del salario in una variabile indipendente dalla prestazione lavorativa. Nella società dell’ homo oeconomicus, ovviamente, non poteva esservi alcun posto per leggi ispirate a quel diritto di vivere del tutto estraneo ai rapporti naturali  secondo razionalità economica.
Dunque quel nuovo fondamentale fattore di storia che per più di un secolo e mezzo è stato il movimento operaio, quella novità assoluta di un’azione operaia che rimette in discussione  le logiche di dominio, ha le sue basi nella resistenza contro il nuovo totalitarismo della funzione economica,
Fino a non molto tempo fa la storia del movimento operaio ha avuto una caratterizzazione sempre scandita dal conflitto, dagli scioperi. In particolare  nel momento fondante di tale storia ed in genere nei momenti di mutamento profondo del ciclo e dell’organizzazione del lavoro. In genere, proprio in quei momenti, gli scioperi falliscono. Alcuni scioperi sfidano evidentemente le ragioni delle «compatibilità» e magari sembrano difendere modi di lavoro destinati ad essere superati dallo sviluppo economico e tecnologico. Eppure furono proprio i «fallimenti», gli «anacronismi» a creare quelle organizzazioni nuove e quel nuovo spirito collettivo che fu determinante per arrivare anche a nuove relazioni sociali.
Nelle pieghe del capitalismo reale, del capitale-totale nel nostro tempo, ci sono numerosi semi di questa pianta ed anche qualche germoglio.
A differenza delle streghe shakespeariane, noi non possiamo sapere se si trasformeranno in piante forti e rigogliose. Ma sappiamo che le possibilità che ciò avvenga hanno fondamento. Nelle seconda modernità si sono verificate. In questa possibilità/ probabilità consiste, secondo un usato modo di dire, la libertà della storia, il suo essere irriducibilmente antideterminita.

[1] D. Harvey, Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, Milano, Feltrinelli, 2014, p. 288.