Tra politica e politiche. Il ruolo della partecipazione
di Massimo Morisi
«…esporsi a sollecitazioni politiche; votare; avviare una discussione politica; cercare di convincere un altro a votare in un certo modo; portare un distintivo politico; avere contatti con un funzionario o con un dirigente politico; versare offerte in denaro a un partito o a un candidato; partecipare a un comizio o a un’assemblea politica; contribuire con il proprio tempo a una campagna politica; diventare membro attivo di un partito politico; partecipare a riunioni in cui si prendono decisioni politiche; sollecitare contributi in denaro per cause politiche; diventare candidato a una carica elettiva; occupare cariche pubbliche o di partito»: questi, secondo una celebre tipologia (proposta da L.W. Milbraith, Political participation, Chicago, 1966) i diversi gradi di partecipazione politica o di coinvolgimento nella vita politica registrabili presso il pubblico di una società del mondo occidentale in pieno ‘900 “democratico”. In realtà, e al netto delle molteplici e multiverse integrazioni che l’esperienza storica ci suggerirebbe (ad esempio: firmare petizioni; partecipare a manifestazioni; promuovere o prender parte attivamente a campagne politiche; interloquire con parlamentari; partecipare al boicottaggio di alcuni beni o prodotti - Ipsos - Mori, 2009) sappiamo che la partecipazione politica è un’attività condotta da persone che intendono influenzare chi governa e le decisioni che assume. Un’attività che può avvalersi di metodi “convenzionali” (quali quelli richiamati da Milbraith comunque integrabili) e di metodi “non convenzionali” (ossia esterni o addirittura contrari all’ambito della sfera politica formale, delle sue organizzazioni collettive e dei suoi circuiti istituzionali). Ebbene, tra le due dimensioni - convenzionale e non convenzionale - si colloca storicamente la partecipazione civica alla formazione e alla messa in opera delle “politiche pubbliche”: cioè il tentativo dei cittadini di influire sulle decisioni collettive che più condizionano, in modo diretto o indiretto, la qualità e il senso del loro vivere, intervenendo in prima persona nei luoghi e sugli attori presso i quali quelle decisioni vengono costruite o messe in opera. Un tentativo che può utilizzare tecnologie antiche e nuove, integrando o surrogando, secondo i temi e le circostanze, forme e istituti della rappresentanza politica così come forme e istituti di consultazione referendaria, ovvero inventarne o adottarne di alternative: perché la parola chiave è comunque efficacia, ossia far si che l’impegno civico si traduca in una voce plurale effettivamente influente. Ma efficacia ha anche un secondo significato strettamente correlato al primo, e che rende la partecipazione civica al “far politiche” una necessità per qualunque politica pubblica che non voglia rimanere sulla carta: ossia creare una condivisione di progetti e strumenti sufficiente a favorire comportamenti soggettivi che siano coerenti con le sue finalità dichiarate, anche a costo - attraverso il percorso partecipativo - di sollecitare, evidenziare e affrontare dialetticamente i conflitti che quella politica sottende. E che, mediante adeguate forme di “democrazia deliberativa”, può riuscire a comporre ridisegnando, se del caso, finalità, alternative, progetti e strumenti inizialmente concepiti.
Orbene, riconoscere le virtù della partecipazione non significa alcuna preconcetta indulgenza verso filo-comitatismi di comodo, bensì assumere il fatto che le politiche pubbliche che vogliano servire alla regolazione sociale possano trarre la loro legittimazione e dunque la loro operatività da una mutua “convergenza dialogica” tra i loro autori e i loro destinatari circa l’interesse pubblico e il bene della comunità volta a volta interessata. Un effettivo, ben strutturato e garantito coinvolgimento dei destinatari e una ben argomentata loro responsabilizzazione nel formulare e nel porre in opera le politiche pubbliche e quindi gli obiettivi di regolazione sociale che esse perseguono, costituiscono la via alternativa o almeno integrativa rispetto all’illusorio monopolio della legalità, della rappresentanza politica e delle semplificazioni referendarie nel riuscire a coordinare comportamenti di individui, gruppi e istituzioni. E possono conferire concretezza alla regolazione sociale iniettandovi le necessarie dosi di un’empirica e solida legittimità sostanziale.
Tuttavia, due quesiti di fondo continuano ad angustiare i fautori della partecipazione al policy making dei nostri tempi:
1. perché una minoranza, che anche laddove sia una minoranza non solo “morale” ma addirittura “profetica”, resta pur sempre una minoranza anche se supportata dalle interconnessioni tecnologiche di rete, dovrebbe potersi sostituire o anche solo pretendere di integrare un meccanismo di governo fondato sulla certificazione maggioritaria della volontà del popolo sovrano?
2. qual è il grado di genuinità riflessiva ed espressiva di “chi” partecipa e delle sue motivazioni? Si tratta di comprendere se e come la partecipazione civica possa sussumere interessi e valori maggiori o di valore superiore a quelli sottesi a un qualche mandato di rappresentanza politica o alla “democrazia diretta”. Perché mai, in una parola, quei “chi” che partecipano dovrebbero fregiarsi di una sorta di sanioritas dotata di competenze tecniche e valori morali più affidabili del semplice contarsi in un’assemblea legislativa o in una consultazione referendaria?
Due domande che affondano le loro radici nella «necessità di deliberare in comune […] ovunque gli uomini non siano governati da un monarca assoluto» (E. Ruffini, Il principio maggioritario, Milano, 1976, 13) e nella sua storia millenaria, e che dunque, semplicemente, non hanno risposta: se non nella ricerca del massimo rigore metodologico con su cui ogni esperienza di partecipazione deve fondarsi e, a monte, nella consapevolezza del suo ruolo talvolta indispensabile ma pur sempre ausiliario rispetto agli altri circuiti democratici della rappresentanza e della mediazione politica.