Il poeta è un veritore?
di Anna Segre
Ma cos’è che rende la poesia poesia? Mi chiedo com’è possibile che, indipendentemente dalla qualità del testo, sgorghino versi in chi è tormentato o innamorato o prigioniero; insomma, e se la poesia fosse il canto dell’essere umano come il gorgheggio lo è di certi uccelli, insopprimibile, naturale?
La poesia non è un genere per pochi. Anche i bambini scrivono poesie. La percentuale di persone che hanno scritto una poesia è imparagonabilmente più alta di quelle che hanno scritto un saggio o un romanzo.
Per spiegare cosa intendo, parlerò di me. Io vivo di lettura, anche prosaica; leggere è una dipendenza, la ricerca di uno stato alterato di coscienza. Come tutti i tossici, so creare il mio piacere, essendo i libri sostanze, farmaci, me li doso a seconda dei momenti e del bisogno. E, appunto, quando mi somministro la poesia, cerco il corpo, una sensazione fisica, e al contempo una trascendenza sottile, uno sguardo all’invisibile, una sfida al dicibile, godo l’immediatezza dell’emozione, perché una poesia può commuoverti istantaneamente, per esempio questa della Dickinson:
76 – Non conosciamo mai la nostra altezza
Finché non siamo chiamati ad alzarci.
E se siamo fedeli al nostro compito
Arriva al cielo la nostra statura.
L’eroismo che allora recitiamo
Sarebbe quotidiano, se noi stessi
Non c’incurvassimo di cubiti
Per la paura di essere dei re.
Che più di un paziente ha sciolto in lacrime inaspettatamente, oltre a me, descrivendo in pochissime parole tutta una dinamica di sfiducia in sé stessi e creando la visione di colui che si alza dall’ombra ed è altissimo davanti agli altri rispetto a ciò che credeva lui per primo di sé. Ma ogni mia parola riduce la forza incredibile di questa poesia, l’effetto quasi chimico che ha mentre la si legge, e non si può che piangere dell’improvvisa coscienza all’ultimo verso. Perlomeno io.
La poesia si avvale del suono, che ha effetti neurotrasmettitoriali, il suono di per sé suscita emozioni, e contemporaneamente la parola significa. C’è qualcosa che sfugge alla definizione nei poteri della poesia ed è la sorprendente alchimia che non si può costruire solo col sapere, con la cultura, con la conoscenza dell’opera degli altri poeti, ma ha ingredienti disparati, di difficile focalizzazione, ce li ha a prescindere dall’applicazione a scrivere versi, è un’attitudine allo sguardo divergente, che travalica il pensiero, anche se si aggancia alla mente. Sì, la poesia è oltre il sistema cognitivo, lo bypassa, lo scardina, lo sbilancia. Potrei dire che somiglia all’ipnosi, come meccanismo, vincendo la resistenza allo sguardo abituato, tipo cavallo da tiro, sempre agli stessi percorsi, la poesia lo sposta: stai pensando, ma non come prima, forse stai percependo, però il turbamento ti tiene al di qua dello spiegabile, a volte addirittura del focalizzabile.
È una sorta di magia verbale di cui nemmeno il mago conosce i segreti. Possiamo provare a ricostruire a posteriori perché una poesia ci trafigge, ma chi la scrive non l’ha calcolato. L’ha tentato. Sì. Il poeta cerca la verità, escludendo parola dopo parola ciò che non è, ciò che somiglia ma non corrisponde, ciò che sarebbe bello, ma non direbbe ciò che deve, ciò che ridonderebbe e distrarrebbe dalla verità. Perché il poeta è un veritore, è lo specchio dell’imperatore senza vestiti, è un fiammifero nel buio dell’ipocrisia, raccontando ciò che sente vero, cura se stesso, diluisce la falsità collegata agli automatismi sociali, si pianta come un seme di dubbio che potrebbe fiorire da un momento all’altro nel lettore.
La poesia non è parziale, bensì totale. Suggerisce, allude, ma non si stanca di rivelare. È attraverso la poesia che si sanno le pieghe del trascurato, del non indagato.
La nostra società ha una struttura binaria e ‘ossessiva’ che si appoggia sulla spiegazione analogica di ogni aspetto della vita, tralasciando la spiritualità, gli aspetti inconoscibili, l’inconscio, tutto ciò che non è computabile e controllabile. La poesia fa parte del neglect sociale, come la pazzia, come l’arte che sperimenta.
Difatti anche il teatro è considerato rappresentazione, mentre è invece il pistillo della verità: dopo aver tolto i petali di formalità, quotidianità, abitudini e rituali, il palco scenico ospita l’indicibile, denunciando il vero, nel suo grottesco falso sé.
La poesia ti dà accesso al tuo dentro, è un’arma non mortale e spesso diventa immortale. Forse è una sublimazione della morte, è un incantesimo che la addomestica, è una chiave criptata che sarà decodificata nel futuro, una previsione proprio nel senso del vedere prima, dell’avvertire, di solito inutilmente, della marchiana, negata, travestita verità.