Pastore

femminile plurale

di Anna Kauber

Pastore: femminile plurale. Questo il titolo che ha accompagnato il mio viaggio di ricerca delle presenze femminili nel mondo della pastorizia italiana, tradizionalmente di cultura maschile e spesso anche patriarcale. Un’indagine di genere, dunque, già evidenziata nell’apparente ambiguità linguistica della parola “pastore”, che nella grammatica italiana identifica sia il sostantivo maschile singolare sia il sostantivo femminile plurale. In questo gioco di analisi grammaticale della nostra lingua avevo di fatto trasferito la premessa e l’impalcatura concettuale dell’intero progetto di ricerca.

Nei due anni di viaggio il tempo dedicato all’incontro con ciascuna è stato il mio grande alleato e lo strumento indispensabile per porre e via via consolidare le basi per uno scambio sincero e spontaneo tra noi.
Nelle lunghe e dense giornate passate insieme, con tante di loro si è formata una relazione speciale, di simpatia e di intesa profonda e paritaria, in grado di abbattere le distanze e le diversità di età, di provenienza, di background culturali... e anche di linguaggio! Abbiamo vissuto con divertimento le reciproche difficoltà, partendo proprio dall’incomprensione linguistica, che si verificava in caso di uso massiccio del dialetto, per arrivare alla mia inadeguatezza fisica durante lunghe e faticose salite al pascolo. Forse perché favorito dall’immersione in contesti naturali di grande e monumentale bellezza (portatori, nella mia esperienza, di un tale benessere interiore da rendere più facile l’avvio dei miei migliori processi di apertura mentale e ricettività )  e dal reciproco desiderio di agevolare una all’altra l’accesso a quella possibilità di incontro così nuovo e stimolante, ogni incontro è riuscito ad abbattere le differenze fra di noi.  Anzi, queste ultime non solo non hanno costituito un problema, ma, all’opposto, hanno ulteriormente alimentato, stimolato ed arricchito ogni momento vissuto insieme. 

A partire dal primo approccio, tuttavia, il rapporto di conoscenza con le pastore si è potuto sviluppare solo grazie alla mia scelta di andare da loro SOLA, senza alcuna troupe. Altre presenze, infatti, avrebbero sicuramente disturbato – se non addirittura reso impossibile – anche la sola stessa intervista. Ma ancor più, non avrebbero mai consentito il loro abbandono fiducioso, e l’apertura della relazione anche empatica fra di noi, grazie alla quale sono nati i racconti di grande spontaneità, sempre veri e senza filtri, densi di parole essenziali e mai banali.
Non sono mai state interviste, dunque, ma percorsi di conoscenza da donna a donna, entrambe delle quali - al di qua e al di là della videocamera - mettevano in gioco i propri vissuti individuali in modo aperto e schietto, talvolta curioso, spesso divertito e sicuramente anche complice. Un processo lento e sereno, privo di altra finalità che non fosse la semplice condivisione delle ore di vita e di lavoro di intere giornate, che è arrivato a generare, con tante di loro, una importante forma di affettuosa confidenza intima.

L’esistenza delle donne pastore si svolge nell’ambiente naturale, che ha affinato in loro una sorta di pratica dell’ascolto e di adattamento attivo ai suoi ritmi e alle sue leggi, e si sostanzia nella cura degli animali. Nella pastorizia la relazione fra esseri umani, animali e ambiente naturale è di strettissima collaborazione e interdipendenza: senza un vero equilibro fra questi soggetti l’attività millenaria dei pastori e delle pastore non potrebbe esistere.
La pratica lavorativa tradizionale, rimasta pressochè immutata nel corso dl tempo, si fonda sulla consapevolezza della necessità di un uso attento alla rigenerazione delle risorse presenti in natura, da cui dipendono gli animali e quindi il risultato stesso della propria fatica. Animate da una ferrea volontà di preservare la vita a qualsiasi costo e di creare le condizioni affinché questa possa manifestarsi, crescere e riprodursi, le pastore dimostrano una straordinaria capacità di prendersi cura degli esseri viventi, dalla pianta agli animali. Sono in sintonia con i cicli vitali del gregge, composto principalmente da esemplari femminili. A prescindere dal loro essere o meno madri, infatti, una sensibilità ‘materna’ fa intuire loro il giorno del parto e le rende abilissime nel manipolare il corpo degli animali, per esempio durante le difficoltà del travaglio, o nel comprendere le necessità dei ‘piccoli’.
Oltre alla comprensione intellettuale della complessità del rapporto con la natura (restituita dalle riflessioni delle donne pastore più scolarizzate), attraverso loro ho avuto accesso a quella forma istintiva, emotiva e sensoriale di conoscenza empatica del mondo naturale propria di coloro i quali, attraverso la cura quotidiana della terra e degli animali, assistono e imparano a ri-conoscere - con stupore e meraviglia - lo svelarsi continuo, e mai concluso, dei suoi segreti.

La strabiliante quantità di ore di girato raccolte nei due anni passati sulle Terre Alte è densa delle parole che, intrecciate nei loro racconti, rivelano l’eccezionale diversità delle forme espressive del nostro Paese, fornendo una sorta di mappatura sonora che accompagna le immagini dei tanti paesaggi italiani attraversati.
Ma non è esclusivamente il linguaggio umano, nel film, ad avere l’incarico di narrare la pastorizia femminile, e nemmeno la forza delle immagini, i volti aperti e luminosi delle protagoniste, gli spettacolari contesti naturali e le immersive riprese dei greggi e delle mandrie. A tracciare il racconto si impone un altro elemento espressivo, che si incarica di legare esseri umani, animali e paesaggi in quell’unico potente quadro di rappresentazione del mondo delle pastore: il silenzio rumoroso dei suoni della natura e del lavoro, immediatamente protagonista senza volerlo essere, pieno di vento, o di tuoni lontani o del battere della pioggia; pieno dei versi degli uccelli e dei loro echi, di passaggi di insetti e di foglie che scricchiolano sotto le zampe delle pecore; pieno delle note diverse dei sonagli e dei fischi e dei richiami mai uguali delle pastore, così come dei mille toni dei belati e dei muggiti, dei cani che abbaiano e di qualcuno che impreca. La sera in alpeggio tutti i rumori si spengono. Nella vecchia baita rimane il lieve ronfare di Siro, finalmente a riposo, anche lui, come me, rinfrancato dall’intimo crepitare del fuoco di Maria Pia. E il giorno dopo, invece, ecco di nuovo la voce dell’acqua del ruscello, che quando corre giù dalla montagna è sempre così limpida e allegra, vivacissima...

Dalla ricerca “Pastore: femminile plurale” è nato il film “In questo mondo”, miglior documentario italiano al 36° Torino Festival e vincitore di altri numerosi concorsi nazionali e internazionali.

La verità nelle parole di Assunta, pastora protagonista del film: “Certe persone pensano forse che loro rimarranno (per sempre) sulla terra a godersi la tranquillità, la salute e i piaceri della vita...  Sarà?! Beati loro che si sono comprati la vita. Comunque queste persone mi fanno chiamare dalla legge perché io, spostando le vacche tra un pascolo e l’altro, sporco la strada provinciale. La mia domanda è: ma ce li ho messi io, gli animali sulla terra? Se non ci stavano, non avrei fatto l’allevatore. Poveri ‘spauracchi’, da poco vi siete ripuliti un po’ e mo’ pensate che siete il top del pulito. Povera gente...” (Assunta Valente, Facebook, 20 settembre ’21)

Il trailer: https://youtu.be/TkTH3ViRGnk