Non è siccità, l'acqua è ormai un bene scarso 

di Luca Martinelli

Quando presento il libro “Pane buono”, che ho scritto con Laura Filios per Altreconomia, uno degli elementi che colpiscono di più il pubblico è come i nuovi i panificatori, i fornai artigiani del XXI secolo, siano tornati a chiedere ai propri clienti di prenotare il pane.  Alcuni mi hanno raccontato quasi l’indignazione delle persone di fronte a questa richiesta, un’emozione alimentata dall’abitudine di trovare sempre tutto, nei banchi panetteria dei supermercati dove - spesso - si promette il pane caldo (o appena sfornato) tutto il giorno.
È una riflessione sulla scarsità a più livelli quella che mi trovo a condividere, anche se quello a cui stiamo assistendo è semplicemente il ritorno a un modello in cui anche io sono cresciuto, quando in campagna il fornaio passava a consegnare un filoncino di pane che era stato prenotato il giorno prima. Tutti ormai abbiamo però preso un’altra abitudine, che è opportuno e urgente abbandonare. Per tre ordini di motivi: il primo è strettamente legato a quel pane, prodotto utilizzando farina o più farine di qualità, farine agricole, in una relazione virtuosa costruita con il cerealicoltore biologico, basata anche su accordi di prezzo che esulano da quelli stabiliti alla Borsa di Bologna, che in Italia fa fede sul prezzo dei cereali, o a quella di Chicago.
Ecco: quella farina, frutto di un anno di lavoro, che ha ottenuto il giusto riconoscimento economico, non ha senso sprecarla. Non ha senso usarla per panificare del pane che poi verrà buttato. Non ha senso farlo nemmeno (ed è il secondo motivo) per denunciare l’insostenibilità del modello economico della Grande distribuzione organizzata che è fondato sullo spreco o sul reso, che è esattamente concetto contrario a quelli di scarsità e di gestione oculata. Non ha senso farlo, infine, terzo motivo che assume una radicale importanza nel contesto che viviamo, perché anche il cereale - come ogni prodotto agricolo - ha bisogno di acqua per essere coltivato e noi stiamo attraversando purtroppo non una condizione provvisoria di siccità ma l’ingresso nell’era della scarsità idrica. Perciò: non ha senso buttare pane fatto utilizzando farine ricavate da cereali coltivate utilizzando - ovviamente - acqua, bene comune e risorsa scarsa.
A fronte di tutto questo le misure prese o immaginate dal governo sono surreali: il decreto “Siccità” continua ad affrontare la questione come un’emergenza ma soprattutto considera in via prioritaria soluzioni di tipo infrastrutturale o tecnologico alla questione legata alla riduzione dell’acqua disponibile. Purtroppo, quei nuovi laghetti o invasi resteranno vuoti se non piove, se d’inverno non nevica e quindi poi a Primavera la neve non torna alla forma liquida. Desalinizzare significa entrare in concorrenza con un ecosistema in sofferenza, il mare, mantenendo ben ferma una visione antropocentrica che non ha fatto che creare danni all’essere umano. Qualche segnale o indicazione arriva senz’altro dal Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici e l’ho raccolta anche in un’intervista ad Alessandro Bratti uscita sul quotidiano “il manifesto”: è tempo di individuare nuove colture meno idroesigenti, è tempo di cambiare stili di vita, è tempo di scelte radicali. E invece la politica annaspa: facciamo un esempio concreto, che coinvolge la Regione Emilia-Romagna. In Alta Valmarecchia stanno costruendo un nuovo allevamento intensivo di polli, dove saranno allevati da Fileni, in condizioni che l’Efsa ha chiarito non rispettano in alcun modo il benessere animale, tra i 500mila e gli 800mila polli all’anno; l’allevamento, secondo informazioni aziendali, ha un fabbisogno in termini di cereali che l’azienda quantifica in 2.000 ettari. Siamo davvero ancora nella condizione di poter “sprecare” una superficie così importante, e l’acqua necessaria per irrigare e far crescere quei cereali, solo per far ingozzare per circa 80 giorni degli animali da accompagnare poi al macello? Gli allevamenti intensivi, inoltre, rappresentano un'importante fonte di emissione di ammoniaca e di metano, il primo danneggia la qualità dell’aria ed è precursore di PM2.5, che causano il cancro, il secondo un gas climalterante che ha effetti negativi superiori a quelli della CO2. “Il metano ha un impatto climalterante 85 volte quello della CO2 su un arco di 20 anni” mi ha spiegato recentemente Enrico Gagliano di Energia per il futuro, che ho intervistato per l’ExtraTerrestre/il manifesto. Scarso è anche il tempo che abbiamo ormai per invertire la rotta e ridurre le emissioni “di quasi la metà entro il 2030” come ricorda anche Stefano Caserini sul numero di maggio di Altreconomia, commentando il Rapporto di sintesi delSesto rapporto di valutazione sul clima del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc). Caserini cita anche una frase chiave: “Le nostre scelte riecheggeranno per migliaia di anni”. È la frase che chiude il Rapporto di sintesi, un richiamo alla consapevolezza. Quella dei decisori purtroppo è scarsa.