Medea, chi sei tu veramente?
di Franco Novelli
Il sintagma “spazio” ha molti significati: è un luogo indefinito dove possiamo trovare degli oggetti; è l’ambiente in cui si muovono i corpi celesti – spazio astronomico -; c’è, poi, lo spazio interstellare; lo spazio aereo; lo spazio pubblico; c’è lo spazio verde – le abitazioni, per esempio, circondate da giardini e, quindi, ricche di vegetazione; c’è lo spazio architettonico. Ma per spazio intendiamo anche una estensione di terreni dove si possono svolgere attività sportive, culturali, musicali, teatrali. Ebbene, è questo lo spazio che intendo in questa sede nel proporvi la lettura del mio intervento.
In uno scenario eccezionalmente piacevole, se non incantevole, sulle alture collinari di Castelbottaccio (Cb), paese ospitale, delizioso, in un’ampia campagna soleggiata e tra i covoni di paglia con cui si è soliti modellare, come da alcuni anni fanno con grintosa continuità Pina e le sue amiche, una specie di antico teatro greco, il pomeriggio/sera del 17 agosto scorso si è svolto il “Teatro di paglia”, caratterizzato dai contributi, in libertà, di letture, di recitazione e di semplici pensieri di quanti amano da anni frequentare questo tradizionale, vagheggiato, appuntamento.
Il mio contributo ha tratteggiato la figura tragica ed infelice di Medea, di cui qui di seguito ne propongo una sintesi, donna alla quale oggi si raffigurano emblematicamente le donne migranti, povere, infelici, sfruttate, violentate nel fisico e nell’animo..
Medea: E’ finita: il canto nuziale ferisce le mie orecchie. Io stento ancora, stento a credere a un male così grande. Questo ha potuto fare Giàsone? Togliermi padre, patria, regno e poi lasciarmi sola in terra straniera, cuore di pietra? Non ha tenuto conto dei miei meriti, lui che mi ha vista vincere le fiamme ed il mare col delitto? Crede proprio che abbia dato fondo a ogni crimine? Dubbio e follia travolge la mia mente. Come vendicarmi? (…) Quante volte questa empia mano ha sparso sangue e morte! E non ho commesso alcun delitto in preda all’ira: ma ora sento la furia di un amore infelice. Ma che poteva Giàsone, schiavo dell’altrui volere? Doveva offrire il petto al ferro (…) La colpa è tutta di Creonte, il despota che scioglie nozze, strappa la madre ai figli, rompe un legame consacrato da tali pegni: sia lui il bersaglio, paghi solo lui quello che deve.” (Seneca, Medea).
Siamo entrati nell’ambito della narrazione delle vicissitudini amare di Medea, riportando un passaggio dei suoi dialoghi con la nutrice e con Creonte, il re di Corinto, la città dove lei e Giàsone si sono stabiliti con i loro due figli – Medeo e Ferete - allo scopo di cominciare a vivere una esistenza augurabilmente inclusiva in una comunità di cui Medea si riprometteva di voler far parte. Ma Medea lì, in questi nuovi territori familiari a Giàsone ma non a lei, appare da subito come “colei che viene da lontano”, la straniera dall’oscuro passato, la barbara, la maga.
Christa Wolf nel suo libro “Medea voci” presenta questa fanciulla della Colchide intenzionata ad integrarsi nella nuova realtà; ma Medea avverte subito di essere considerata una estranea al nuovo mondo, quello greco. Medea, figlia del re della Colchide, Eete, e di Ecate, ha fatto il suo ingresso nel mondo greco, nella città di Iolco, da subito considerata come una donna avversa al mondo greco, alla sua cultura, alle sue tradizioni. Lei, colca, era ritenuta una donna enigmatica, imprevedibile, la straniera dai lati oscuri ed incomprensibili. In effetti, Medea, per seguire Giàsone, si rende responsabile del tradimento verso suo padre, Eete, re del popolo colco. Dunque, lei appare traditrice del suo popolo, fin dal momento in cui facilita la conquista del Vello d’oro a Giàsone e ai suoi compagni, come pure colpevole per l’uccisione di suo fratello Apsirto, fatto a pezzi e gettato ai quattro venti nel mare Egeo, sotto gli occhi di Eete, che li inseguiva su un’altra nave con i suoi soldati e funzionari di corte.
Christa Wolf delinea una Medea che non è lei l’assassina dei suoi figli, che invece vengono lapidati dalla popolazione di Corinto, inferocita per la morte del loro re, Creonte, e della figlia, Glauce, destinata a succedergli dopo le nozze con Giàsone.
In effetti, la Wolf rielabora segmenti di un mito che provengono da diverse tradizioni narrative, e specialmente da Apollonio Rodio, per le quali Euripide avrebbe modificato frammenti della narrazione, soprattutto quelli che vedevano gli abitanti di Corinto colpevoli dell’assassinio dei due figli di Medea. Il suo obiettivo sarebbe stato quello di far apparire gli abitanti di Corinto generosamente ospitali verso quanti decidevano di fermarsi e di risiedere in Grecia. Di qui, la costruzione del teorema che ad assassinare i due bambini, Medeo e Ferete, sarebbe stata la madre Medea. In effetti, la società ateniese, coeva ad Euripide, aveva bisogno di andare alla ricerca di un capro espiatorio, come tutte le età che conoscono crisi di qualsiasi natura ed hanno bisogno di combattere, di distruggere il diverso...Medea, secondo la Wolf, non può aver ucciso i suoi figli, in quanto la sua stessa cultura glielo impediva. E qual era questa cultura? Quella ancora in prevalenza matriarcale, nella quale non ci sarebbero quasi mai stati impulsi o tensioni aggressive fino all’omicidio dei figli. In particolare, Christa Wolf così scrive: “Nel corso dei millenni la figura di Medea è stata ribaltata nel suo opposto da un bisogno patriarcale di denigrare lo specifico femminile. Ma qualcosa non mi tornava: Medea non poteva essere una infanticida perché una donna proveniente da una cultura matriarcale non avrebbe mai ucciso i suoi figli. In seguito rintracciai (…) le fonti antecedenti a Euripide che confermavano il mio assunto di fondo. Fu un momento straordinario”.
La domanda che ora ci poniamo è questa: ”Perché Medea arriva a uccidere i propri figli?”.
La risposta ce la dà, ovviamente, lo stresso autore tragico, Euripide, che a Medea così fa dire, rispondendo al Coro che le chiede se abbia il coraggio di uccidere i figli: “Uccidere le tue creature ne avrai il coraggio?”. E lei di rimando “E’ il modo più sicuro per spezzare il cuore di mio marito” (Medea, vv. 260-263). Ma può una donna maturare l’idea di sopprimere i propri figli? Dove trae la forza e la folle lucidità nel compiere un gesto di questo genere?
A questo proposito appare necessario un accenno, pur minimale, a due scrittori molto noti del nostro Novecento che si sono soffermati sulla figura di “Medea”: Corrado Alvaro (Reggio Calabria) e Pier Paolo Pasolini (Casarsa della Delizia). Nella versione tragediografica – “La lunga notte di Medea” – ,che ne dà lo scrittore calabrese, Medea è considerata dai cittadini di Corinto come una donna “barbara”, “straniera” in terra corinzia, una specie di maga pericolosa, perché potrebbe servirsi delle sue doti straordinarie a tutto danno dei cittadini corinzi, della città di Corinto nella quale lei vorrebbe vivere e organizzare anche la vita dei suoi figli insieme al padre e suo marito, Giàsone. Ma così non è, né sarà, perché su di lei cala quel plumbeo giudizio di donna estranea, addirittura ostile. Corrado Alvaro, dunque, ci presenta Medea come “l’Antenata di tante donne che hanno subito una persecuzione razziale e di tante che (…) vagano senza passaporto da nazione a nazione, popolano i campi di concentramento o i campi profughi (…) Secondo me, scrive Alvaro, ella uccide i figli per non esporli alla tragedia del vagabondaggio, della persecuzione, della fame: estingue il seme di una maledizione sociale e di razza, li uccide in qualche modo per salvarli, in uno slancio disperato di amore materno” .[1]
Dal suo canto, P.P.Pasolini affronta la figura di Medea nell’omonimo film “Medea”, realizzato appena dopo “Porcile” nel 1969. Pasolini esamina in maniera esplicita il rapporto drammatico e traumatico del mondo occidentale col Terzo Mondo “inteso come universo umano pervaso dal senso del sacro e del mitico (…) Il sentimento profondo che nel film spinge Medea a uccidere la promessa sposa di Giàsone ed a sopprimere gli stessi suoi due figli, non nasce da uno spasimo di vendetta, di odio e di passione, come in Euripide, ma da un lungo sogno in cui ella torna alla sua infanzia, alla sua fede (…) Medea resta la donna disgustata dalla bassezza dell’uomo che ama, ma è soprattutto la donna di un’altra razza, spaesata, sradicata, che il mondo razzista di Corinto esclude per la sua diversità (…)”.[2]
[1] Giuseppe Ferraro, l mito di Medea tra antichi e moderni”, tomo II, Edizioni Simone per la Scuola, Na, 2002
[2] Ibidem