Le Fraschette e la vulnerabilità di una città ciociara
Nel 1962 Alatri divenne un punto di raccolta di moltissimi profughi. Erano persone di nazionalità italiana espulsi dai regimi del nord Africa- soprattutto Tunisia- in seguito alla nazionalizzazione delle terre agricole e alla sostituzione della manodopera europea con quella locale. Nella frazione Fraschette fu allestito un campo di raccolta riadattando vecchie strutture di un campo di concentramento bellico. Fu edificata una scuola elementare in cui furono avviati i bambini. I più grandi venivano nelle scuole medie che erano allora solo in città. Ricordo ragazzi splendidi per acume e dolcezza, che venivano dall’Egitto e dalla Tunisia in classe con me. Parlavano l’italiano l’arabo e il francese. Che i francesi parlassero francese e gli arabi l’arabo ci sembrava normale ma che un ragazzino potesse esprimersi in tre lingue diverse era per la nostra comprensione troppo fuori dell’ordinario. Credevamo potessero farlo solo personaggi del cinema d’oltreoceano. E solo alcuni. E ci affascinavano con i loro racconti per noi quasi salgariani o (quando per gioco traducevano in arabo“cantami o diva del Pelìde Achille…) con le loro scritture svolazzanti e libere sulla lavagna, splendide, raffinate come merletti al tombolo delle donne di casa mia. Non so rendermi conto della loro padronanza dell’arabo ma quella del francese doveva essere eccellente visto che prendevano sempre 10 nei compiti “di lingua straniera” che per noi era il francese, mentre noi tutti rischiavamo la bocciatura. Tanta ammirazione, certo, che però doveva convivere con tanta invidia. Beh era una palestra per tollerare l’ambivalenza. Spesso venivano a casa mia per giocare nella piazzetta che era davanti e per fare i compiti insieme, io aiutandoli in italiano e loro in francese. E condividevamo abbondanti merende, dopo le corse, pane con olio e, se era il periodo, una strusciata di pomodoro di Gaeta, demolendo buona parte di una pagnotta di pane (da noi pesano sempre più di 2 chili). Non ero solo io a coltivare questi rapporti, la maggior parte dei miei coetanei si comportava allo stesso modo. Era un punto di onore accoglierli nella cerchia di amicizia. C’era quasi una gara ad accogliere sotto la propria ala protettiva ragazzini che avevano un dolore per essere stati strappati violentemente da qualcosa. Non capivamo pienamente cos’era questo qualcosa, lo avvertivamo, o meglio lo fantasticavamo, ma in fondo non ci interessava; sicuramente avevamo piena e completa la percezione del loro dolore. Ci veniva dai loro sguardi a volte vergognosi, sempre timidi e con quella strana indefinibile paura di osare. E anche gli adulti di Alatri facevano così. Nessuno ha voltato loro le spalle. Delle migliaia di persone passate per quel Campo delle Fraschette tanti rimasero ad Alatri inserendosi con naturalezza in quella piccola società, tanti andarono a cercare lavoro da altre parti. Anche i miei amici. Mathias e Bernard vennero spesso dalla Francia a trovarmi e, quando io sono andato lontano, sono venuti a Alatri per riabbracciare mia madre. Ma tutti sono ritornati almeno una volta a cercare, abbracciare le persone con cui avevano stabilito, ormai per sempre, corrispondenza d’affetto E’ una lunga tradizione quella dell’accoglienza, viene da lontano. Non si improvvisa. E’ difficile imparare che accogliere vuol dire aiutare a rinascere
Perché scrivo questo lungo ricordo. Perché pensavo che questa coscienza storica (è la stessa di Piombino che raccolse nel suo cimitero i corpi dei soldati tedeschi morti nella Battaglia del 10 settembre ‘43, e basterebbe rileggere le lettere scambiate dal Sindaco con tanti Borgomastri per capirlo) avrebbe difeso per sempre la città, la sua coscienza, la trama di umanità che formava il suo tessuto. L’avrebbe resa invulnerabile più di quanto avevano fatto e avrebbero ancora potuto fare le sue mura megalitiche di cui è fiera. E invece….
Il 25 marzo del 2017 tutto si è strappato. Quella notte morì un giovane, Emanuele Morganti ucciso barbaramente in una piazza del centro storico. In una notte quella morte tragica ha perso l’innocenza di Alatri. Come se fosse scoppiata una bomba e tutto rintronasse. Come se Eduardo avesse scritto per ogni madre di Alatri le ultime parole di Napoli Milionaria quando Amalia ripete affranta, come inebetita in un incubo cercando impossibili risposte “ ch’è succieso, che è successo”. Intorno solo buio, buio in cui gli alatresi brancolavano ciechi senza potersi orientare. Poi, come spesso accade quando ci si trova a subìre una inaspettata, profonda ferita, la prima reazione è stata negarne la gravità o almeno il proprio coinvolgimento, non vederlo, “forcluderlo” secondo certi psicoanalisti. E, una volta che la realtà ha costretto a intravvederlo, espellerlo spingendo le possibili cause al di fuori delle mura ciclopiche. E’ doloroso scoprire, per un paese, la propria vulnerabilità. E allora il senso di colpa, il dover chiamarsi in causa per una disattenzione nella difesa e protezione dei più fragili e per una disattesa sorveglianza dello sfilacciamento del tessuto sociale, crea un disagio così penoso, così ingestibile da rendere impossibile indagare e riflettere con equilibrio. Purtroppo in quella notte c’è stata un’altra violenza, che ha reso tutto più complicato. Mi riferisco alla violenza mediatica di centomila televisioni che con sguardo pornografico, con voyeurismo dissacratorio, ferivano frugavano perquisivano restituendo agli occhi del mondo l’immagine di una popolazione (intimidita e resa rauca da domande assillanti, a volte speciose) irrimediabilmente complice, omertosa. La pressione avvertita insostenibile e la scoperta di questa seconda inaspettata vulnerabilità di sentirsi umiliati ha inasprito gli animi. Li ha come incruditi non contribuendo a un rasserenamento che avrebbe aiutato la città a fare una più profonda riflessione su sé stessa. Poteva essere diverso. lo dico perché c’è stato chi si è avvicinato con animo e atteggiamento equilibrato e partecipe. C’è riuscito Daniele Vicari con il suo bel libro “Emanuele nella battaglia” dedicato a quel dramma, perché nato da un affetto quasi religioso e da un pensiero meditato. Un raro fiore che è risbocciato nella lettura collettiva (una staffetta di cui i cittadini si facevano testimoni) del libro fatta a Alatri, non molto tempo fa, portata a termine da buona parte del paese. Ha rappresentato, quell’evento, il punto di ripresa, di possibile rinascita per la città e ha rinforzato un senso di unione e appartenenza che sembrava sfioccarsi irrimediabilmente. E finalmente rappresentava una possibilità di superamento del senso di colpa nato quella notte e divenuto pian piano dilaniante, inconsciamente non sentito degno di comprensione e perdono
Esattamente sei anni dopo è accaduto un nuovo fatto tragico, in pieno centro storico un ragazzo di diciotto anni Thomas Bricca è stato ucciso con un colpo di pistola, forse a conclusione di tre giorni di agguati e pestaggi tra gruppi di bande di giovani in guerra tra di loro. Dopo sei anni dall’omicidio di Emanuele il paese è precipitato in un altro e spaventoso dramma, spinto in un pozzo ancora più scuro e profondo quando, forse troppo affrettatamente, si era illuso di aver considerato risolto il precedente mentre, facile dirlo ora, non era stato elaborato pienamente.
Ogni ricaduta è il momento più adatto perché il germe della vulnerabilità si riproduca e ramifichi trovando un organismo più debole. C’è ora davanti ai nostri occhi una ferita riaperta. E una ferita quando si riapre sanguina di più. Il tessuto è acciaccato, ha meno vitalità, fiaccato dalla lotta affrontata per rimarginarsi. Arriva all’osso il dubbio, spaventoso ora, di inadeguatezza, di non riuscire più a proteggere le nuove generazioni. Di nuovo a dolore si è aggiunto dolore, a violenza subita nella carne si è unita la violenza della nuova ondata dei media di sfrontata richiesta a tutti di un’autodafé da Inquisizione. Giunta a questo livello la vulnerabilità della città sembra aver toccato un punto di non ritorno. Qualunque cosa ora sembra poterla ferire. La città sembra afona. La vulnerabilità io la avverto nei giudizi a distanza, meglio nei pregiudizi, da cui anch’io mi sento colpito, una parte del mio corpo, una parte della mia anima è di Alatri. Frasi che vanno al di là dell’offesa tanto sono stupide “ se vai a Londra portati l’ombrello a Alatri la pistola” acuiscono senza saperlo la vulnerabilità di una città che viene conosciuta, e questo fa rabbia, solo quando mostra la sua faccia deplorevole e invece dimenticata (nella logica spietata dei media e perciò nel giudizio dell’opinione pubblica lontana) per tante altre cose che fanno il suo orgoglio.
La scuola di Emanuele e Thomas è attenta da sempre a progetti e iniziative contro il disagio giovanile. Nessun giornalista ha raccontato che a 100 metri da dove lui sta parlando c’è un liceo attento all’animo umano in cui persone come Zavattini, Padre Mariano, Garzanti, Pietrobono si sono dedicati alla cura dei giovani o sono stati tra quei giovani. Che a 150 metri c’è una struttura che accoglie e indirizza giovani dell’Oriente che rappresentano una speranza per l’arte e la musica. E un po’ più in là, a 200 metri fiorisce un’associazione di giovani e adulti che con tenacia, a volte con caparbietà condanna da anni la violenza delittuosa aprendosi al mondo cercando di esserci come possono e come sanno. Cioè dandosi speranza con l’arte e la cultura, inventandosi nuove possibilità di lavori straordinari. Il rischio è che ora tutti questi che rappresentano la parte più forte, più genuina e finora più reattiva, i veri anticorpi insomma, si avvertano vulnerabili e sentano scemare le forze di cui si erano con fatica arricchiti.
Quando mi è stato richiesto di riflettere sul tema “vulnerabilità” ho pensato: dopo tanto tempo a contatto con il “vulnus”, sia con le ferite della carne nelle corsie degli ospedali sia dell’animo nella mia stanza di Analisi, mi sarà facile trovare argomenti, potrei già partire dalla ferita narcisistica. Probabilmente è quello che ci si aspetta da me.
Poi sono arrivate notizie angoscianti da Alatri. Era evidente l’accresciuta vulnerabilità di un paese di Ciociaria che nemmeno le mura ciclopiche che pur l’hanno difesa per secoli dai nemici, sembrano ora poter proteggere. E questo comprende anche la mia vulnerabilità. Io ne faccio parte. Quando ci si sente vulnerabili, è esperienza di tutti, ci si chiude a riccio, lo sguardo si rivolge all’interno a guardare la propria ferita, tutte le energie sono rivolte a salvaguardare quello che si può salvare di sé stessi. Si diventa afoni. Ho cercato di darle voce. Perché non può andare disperso un immenso patrimonio culturale che è anche quello della fraternità, del sostegno reciproco, della predisposizione all’ospitalità che mi rimanda il vivido ricordo dei profughi delle Fraschette con i miei, i nostri, piccoli amici “tunisini” .