Le ferite della mente
La vulnerabilità ha il volto della fragilità psichica, di cui ci ha detto, per esempio, Mary Jane Ward nel romanzo The Snake Pit (uscito nel 1946, edito in Italia due anni dopo, con il titolo La fossa dei serpenti); ha il profilo di quella che Aristotele nell’Etica Nicomachea chiamava affezione morbosa; ha l’identità che Roberto Lorenzini ha descritto in Psicopatologia generale (un libro uscito nel 2010 e quasi introvabile, oggi).
Il corpo, dalla mole minotauresca, della malattia che attanaglia la mente, che la perseguita e che la avvinghia, niente, proprio niente, ha del fascino sotteso che Erasmo ha voluto darle. Quella di cui Erasmo parla non è altro che una categoria filosofica: quello che Erasmo scrive, pur nella fantasmagorica raffinatezza dell’Elogio, non rappresenta che un divertissement, nulla che abbia a ha che fare con le ferite (i vulnera, appunto) che il soggetto subisce e alle quali non può sottrarsi; ferite che scompensano, che inducono, per usare l’espressione dantesca, matta bestialitade (Inferno XI 82-82), ove matta è aggettivo che qualifica la fragilità, e bestialitade il sostantivo che esprime la ferocia ferina della malattia. Non c’è fascino in chi patisce il disturbo psicotico: il morbo che non contagia, ma che aliena da tutto, che respinge, che fa paura, che allontana. Che vulnera, appunto, e che rende magmaticamente vulnerabili: quindi soli, sperduti, poi reietti, confinati negli sguardi pietosi e raramente solidali degli altri, quelli che matti /malati non sono.
Anche la lingua oscilla, si paralizza talvolta, come se non attingesse da un vocabolario univoco, come se si ritrovasse senza parole, sprovvista: le parole per dirla, la malattia mentale (come si fa a non rimandare al libro di Marie Cardinal – 1976?), ci sembrano tante, eppure, sono così poche (follia, pazzia, psicosi, disturbo) e nessun lemma o sintagma pare davvero appropriato o esaustivo: la psicopatologia si sottrae e sfugge all’enunciato, fino al momento, quasi salvifico, in cui la psichiatria pronuncia la diagnosi (lo racconta bene Fuani Marino nel suo Svegliami a mezzanotte, edito da Einaudi nel 2019, ora tradotto in docu-film): poi ci sono i reparti e le parole svaniscono, il tempo incombe e il medico corre dietro alla malattia, per esserne poi a sua volta inseguito (Paolo Milone, ne narra, nitidamente, nel suo L’arte di legare le persone – Einaudi, 2021).
La vulnerabilità, pur nella violenza della sua fragorosità, tante volte non conosce né ascolto né descrizione, ma solo commenti o, nella peggiore delle ipotesi, censura. Ce lo ha detto tanto volte Mario Tobino, che nel 1953 uscì con Le libere donne di Magliano, a cantare le esistenze dei / delle pazienti del manicomio di Maggiano, fiori, quelli, come ebbe a definirne le anime, che noi altri non riusciamo (non vogliamo?) a vedere.
Tobino, che, nella sua grafia pennellata e drammatizzata, su una cartella clinica del 1946, ritrovata da poco dentro l’Archivio di Stato di Lucca, ebbe a registrare così il giorno di una delle malate: “Il giorno dorme. La notte rumina nel silenzio il delirio”.
La vulnerabilità prodotta dalla malattia mentale ha l’incarnato di una pecora nera, per dirla con Ascanio Celestini (La pecora nera, Einaudi 2006, prima spettacolo, poi film, uscito nel 2011).
Nulla ha, invece, del furor che si esaurisce dopo essere scoppiato e che viene risanato, per esempio, da un eroe bislacco (qual è Astolfo) a cui tocca di andare sulla luna, in un altrove che custodisce i senni dell’umanità. Non c’è niente di folle, nella malattia mentale: pare una contraddizione in termini, questa affermazione. Ma basta pensarci un poco e subito si schierano davanti a noi, da un lato Tristano e Orlando, per esempio, e dall’altro, i volti sopiti, le labbra vulnerate e gli occhi incavati e cerchiati, di chi ha conosciuto il ricovero – prima in manicomio, oggi nei reparti psichiatrici.
Ecco allora che si fa avanti l’assenza irrevocabile di uno spazio da dove andare a riprendere la sanità che è stata compromessa. Perché la follia non esiste, in quanto non dura: mentre la malattia ha latitudini inesplorate, che sono soprattutto durata. E che rendono, appunto, vulnerabili. Perché restituiscono ferite.
Venerdì 11 e sabato 12 febbraio si è tenuto (a Maggiano e a Pisa) un Convegno Internazionale sul rapporto tra letteratura e malattia mentale (Le parole per dirlo. Letteratura e malattia mentale: luoghi, storie, narrazioni). Averlo organizzato mi ha portato ‘dentro’, mi ha messo in contatto diretto, mi ha fatto riflettere e crescere. Le molte voci che si sono susseguite, una dopo l’altra, cortesi, rispettose, raffinate, si sono fatte coro senza acuti, tutte intente a trovare le parole per dirla, la malattia mentale, la fragilità psichica, il disagio, la discriminazione, la solitudine, la terapia, - e con le parole i modi, le strade, i vicoli ciechi, i gesti di amore, le ferite sanate e quelle che sanate non saranno mai.
In quei due giorni ho constatato quello che sapevo, ma che ho voluto che fosse sonoro: che la vulnerabilità e le ferite della mente si fanno trasmissione (in senso letteralissimo: penso al lavoro del gruppo dell’emittente bolognese Psicoradio); che hanno l’incarnato di pitture e di musiche (penso all’arte-terapia che ha colorato i padiglioni del manicomio di Maggiano, fino alla sua chiusura nel 1999); che sono in tanti a cercare di sottrarre questo mondo sommerso al silenzio: affinché il delirio che rumina intoni, verso il futuro, il suo canto, libero e delirante. Abbiamo parlato di ferite, in questo convegno: abbiamo stigmatizzato il pietismo - che troppo spesso di malattia mentale disquisisce, per mettere a posto una bontà che non sa mettere in atto, senza saperne parlare.
Abbiamo capito che essere vulnerabili significa, prima di tutto, essere incurabili: del resto, ce lo aveva già detto Tommaso Garzoni, nel suo Hospidale de’pazzi incurabili, uscito nel 1589, racconto di tanti casi clinici, racchiusi tutti nelle celle di un manicomio senza nome.
Perché lo psicofarmaco, sbocciato nel 1952, ci ha reso tutti inesorabilmente più controllati, ma di sicuro non meno feriti.