Il verbo “lavorare” ha una chiara definizione, ma si presta ad interpretazioni molteplici. Deriva dal latino labor che significa fatica, sforzo, sofferenza. Eppure oggi non tutti sono propensi a dire che il proprio lavoro sia immediatamente una pena. Anzi! L’uso del termine, in linea con i dettami delle società neoliberiste, allude sempre più spesso al successo, alla realizzazione, alla carriera, alle ricompense. Dipende da che mansione svolgi, in che luogo operi, quanto guadagni e in quali sistemi di relazioni sei inserito, il significato soggettivo che ciascuno attribuisce al proprio atto del lavorare.
Il verbo “lavorettare” non esiste nei dizionari, ma è sempre più comune nella realtà. Benché non si coniughi mai è spesso sostantivato. L’atto del lavorettare, va da sé, è quello compiuto da chi riconosce di svolgere non un lavoro ma un lavoretto, di avere un impiego al quale non si può riconoscere la stessa dignità di un lavoro. David Graeber li ha recentemente definiti Bullshit Jobs, letteralmente e comunemente “lavori di merda”.
Vivo di lavoretti è una delle espressioni che, nel lungo percorso di ricerca tra i giovani dei paesi molisani, ho sentito più frequentemente. Un’espressione che si completa spesso con l’associazione ai luoghi di lavoro, invece che alle mansioni. Infatti, più volte mi è capitato di sentire “faccio qualche lavoretto in pizzeria, in negozio o in comune”, senza mai specificare quale sia la professione o la mansione ma semplicemente il luogo nel quale si va ad operare. Evidentemente perché il lavoretto in pizzeria non è di certo quello professionalizzato del pizzaiolo, piuttosto è quello del cameriere o dell’addetto alle pulizie. Come per il lavoro in negozio: solitamente è da scaffalista o magazziniere. Significativa è l’accezione del lavorettare “in comune”. Ci sono lavoretti che si svolgono nella casa del sindaco. Si tratta solitamente di una fattispecie governata dal pubblico per mano delle amministrazioni vigenti, che si realizzata attraverso i lavori di pubblica utilità e le borse lavoro rivolte specificatamente ai giovani. Nelle intenzioni del legislatore (legge 196/1997), infatti, questo strumento fu ideato per far fronte all’inoccupazione giovanile nelle regioni del Mezzogiorno. Ma sancì una chiara traiettoria nel mercato del lavoro di queste aree già fragili, istituzionalizzando la precarietà e rafforzando i meccanismi di controllo e creazione del consenso politico locale, attraverso l’elargizione di piccoli contributi monetari (per un periodo non superiore ai 12 mesi) in cambio della messa all’opera dei giovani su mansioni dequalificate e non professionalizzanti. Per intenderci, i giovani assegnatari di borse lavoro sono quelli che, spesso vestiti con una pettorina catarifrangenti, aiutano gli operatori comunali nelle opere di manutenzione, registrano le letture dei contatori dell’acqua o accolgono i cittadini all’ingresso dell’edificio comunale.
Vivere di lavoretti, generalmente, è un po’ come vivere di espedienti, fare di tutto per non saper fare nulla. Ho incontrato però anche alcuni giovani che svolgono lavoretti per integrare il proprio reddito da lavoro dipendente, o ancora qualche giovane che ha consapevolmente scelto di dedicarsi ai lavoretti come rifiuto alla subordinazione e per poter organizzare liberamente il proprio tempo. Questi, al contrario dei primi, hanno affinato una professione e delle competenze specifiche: i maschi nel campo della meccanica, dell’edilizia o del giardinaggio, le donne nell’estetica, nell’assistenza e nella cura.
È curioso dover rilevare che, nella maggior parte dei casi incontrati, chi dichiara di svolgere un lavoretto non lo fa mai in modo informale, ma può sempre vantare piccole e simboliche coperture contrattuali. Svolge quello che la letteratura chiama “lavoro grigio”, in contrapposizione a chi, invece, dichiara apertamente (sempre dopo esser entrati in relazione di fiducia) di lavorare a nero. In alcuni ambiti, infatti, il lavoro completamente informale sembra non esistere più, specie nei piccoli paesi dove il controllo sociale e giuridico è più capillare ed “è facile che ti beccano”. In questo senso, non è l’informalità dei rapporti che definisce il lavoretto, bensì è la sua ignobile formalizzazione.
Oltre al corrispettivo monetario solitamente scarso, il lavoretto si definisce proprio sulla base della tipologia di ingaggio, della durata e della mansione, benché quella formalizzata non corrisponda mai alla realtà e sia persino sminuita rispetto a quella effettiva per ridurre la tassazione a carico dei datori. Dalla banca dati delle Comunicazioni Obbligatorie, quella che registra tutte le assunzioni avvenute durante l’anno, si possono cogliere significativi spunti di riflessione. Pur essendo dati controversi – perché non contano le persone a lavoro ma il numero di contratti siglati – tracciano una chiara traiettoria nel mercato del lavoro locale. Mettiamo in relazione la situazione in Molise con quella del resto d’Italia.
La piccola regione del Mezzogiorno, secondo Istat, fa registrare nel 2022 un tasso di occupazione giovanile (15-34 anni) pari al 38%, significativamente inferiore a quello nazionale (44%) e di poco superiore solo a quello della Campania, della Calabria e della Sicilia. Parallelamente il 21% dei giovani molisani è disoccupato (a fronte del 14% degli italiani) mentre il 52% è inoccupato, ovvero non ha un lavoro e non lo cerca.
(Nel grafico: Assunzioni per tipologia di contratto nel 2021 in Italia e in Molise. Elaborazione propria su dati Comunicazioni Obbligatorie)
Il lavoro a tempo indeterminato rappresenta ormai un’eccezione. Complessivamente, nel 2021, solo 12 contratti su 100 siglati in Molise erano di questo tipo, rispetto ai 14 dell’Italia. A prevalere sono stati invece i contratti a termine nelle loro numerose varianti. Quelli a tempo determinato sono ormai la tipologia prevalente (nel 2021 sono il 75% in Molise e il 70% in Italia del totale delle assunzioni), seguiti da contratti di collaborazione (5% in Molise e 3% in Italia), dai tirocini (3% sia in Molise che in Italia) e dalle altre tipologie di attivazione flessibili e “atipiche” (intermittenti, “a chiamata”, di somministrazione, ecc.). Tali contratti hanno una durata inferiore ad un anno nell’83% dei casi in Molise e nell’81% in Italia. Nella regione però sono molto ricorrenti le assunzioni a brevissimo termine: 1 contratto su 4 dura meno di 30 giorni.
Tra i settori di impiego, quello dei servizi rappresenta l’ambito maggiormente attrattivo, che ha coinvolto il 56% delle assunzioni in Molise e il 64,5% in Italia. Rispetto alla distribuzione nazionale, però, la regione fa registrare una significativa convergenza di assunzioni in agricoltura, dove ricade un contratto su 5 attivati nel corso del 2021.
Sono le tipologie di mansione quelle che connotano in senso qualitativo le assunzioni in questi settori. Il 90% dei contratti attivati nell’agricoltura molisana sono rivolti ai nuovi braccianti, ovvero al personale non qualificato nell'agricoltura e nella manutenzione del verde (a fronte dell’84% in Italia). Agricoltori e operai agricoli specializzati sono invece solo il 2% degli assunti in regione (e l’8% nel Paese).
Più controverso è il settore dei servizi. A prevalere sono in generale le assunzioni come addetti nel campo della ristorazione (22% in Molise e 17% in Italia), un settore soggetto a stagionalità, particolarmente esasperato dalle forme plurali dello sfruttamento (estensione oraria, ritmi incalzanti e paghe da fame) e dall’invisibilizzazione del lavoro. In Molise, diversamente al contesto nazionale, sono invece scarsamente ricorrenti le attivazioni di contratti di lavoro qualificato, come quelle nel campo dell’istruzione, della formazione e dell’eduzione, o come quelle in ambito creativo, espressivo e tecnico. Primeggiano, invece, le assunzioni di operatori senza qualifica nell’ambito dei servizi di pulizia (8%), nei servizi personali o domestici (7%) e in quelli sanitari (4%).
Sebbene queste istantanee non siano riferite esclusivamente all’occupazione giovanile, descrivono un contesto di sostanziale polarizzazione della domanda di lavoro all’interno del quale i più giovani devono destreggiarsi. In Molise e nel Mezzogiorno, in modo più significativo rispetto al resto dell’Italia, svolgere un lavoretto diviene la sola via per accedere ad un reddito e sopravvivere. Il lavoro povero, precario, intermittente e dequalificato si pone spesso come la sola alternativa possibile alla partenza e alla fuga dai piccoli paesi. Talvolta diviene un tramite e un cuscinetto, un ammortizzatore che allevia la caduta e consente di sopravvivere alla tormentata attesa. C’è ancora chi può e chi aspetta, come rilevò Amalia Signorelli agli inizi degli anni ’80, e nell’attesa vive di lavoretti.
Lavorettare rappresenta ormai una pratica diffusa e consolidata, che caratterizza la precarietà contemporanea in senso qualitativo. È l’atto del mettersi all’opera superficialmente, del fare purché si faccia, del “tirare a campare”. E in tal senso fotografa bene la condizione giovanile contemporanea, sempre più tormentata dall’inadeguatezza, dallo strascico, dal bisogno di dimostrare. L’alternativa tra il lavoro e il lavoretto, infatti, è raramente frutto di una scelta, ma è un bivio che si pone sul cammino biografico dei più fragili verso l’adultità, una pista lungo la quale incamminarsi nel tentativo di diventare grandi, magari autonomi e riconoscibili. A chi svolge lavoretti, infatti, non è data la possibilità di vantare la dignità del lavoratore, non può presentarsi in qualità di uomo o donna con un mestiere, con delle competenze e con delle aspettative di successo e realizzazione professionale. Lavorettare umilia, demoralizza, espone al ricatto e rafforza i meccanismi di dipendenza. Crea in tal senso un nuovo esercito produttivo di riserva di scarso valore, manovalanza pronta allo sfruttamento e privata della possibilità di immaginare, desiderare, realizzare. Lavorettare stanca più che lavorare e rende gli uomini e le donne schiavi.
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Bibliografia essenziale di riferimento
Carbone V. (2013), Città eterna, precarie vite. Inchiesta sulle forme di vita precaria nella Roma postmetropolitana, Aracne, Roma.
Fumagalli A. (2011), “La condizione precaria come paradigma biopolitico”, in Chicchi F., Leonardi E. (a cura di), Lavoro in frantumi. Condizione precaria, nuovi conflitti e regime neoliberista, Ombre Corte, Verona: 63-79.
Graeber D. (2018), Bullshit Jobs, Garzanti, Milano.
Mingione E., Pugliese E. (2002), Il Lavoro, Il Mulino, Bologna.
Signorelli A. (1983), Chi può e chi aspetta, Liguori Editore, Napoli.