Lavorare per vivere?

di Giuseppe Santarelli

Tra le tante sfide che animano la stagione politica e sociale che stiamo vivendo non vi è dubbio che quella di dare risposte alle urgenze e ai bisogni dei lavoratori è la più importante. La brevità dei rapporti di lavoro e il carattere precario di essi ha determinato la crescita esponenziale dell’insicurezza sociale e l’allontanamento dalle vicende politiche. Ne è scaturito un divario sempre più vasto tra le aspettative dei lavoratori e l’offerta politica, confermato dai tanti sondaggi post elettorali che a tinte diverse hanno sottolineato come ci sia uno spostamento consistente del mondo del lavoro subordinato e parasubordinato verso la destra politica o verso l’astensione.
I lavoratori più deboli, meno garantiti e meno retribuiti sono quelli che votano di meno e sono quelli che di meno partecipano a tutti i processi democratici, quindi anche alla vita del sindacato.
Il Governo Meloni che ha vinto le elezioni del 2022 sulla spinta di una retorica sovranista e nazionalista sta dimostrando nei fatti di voler proseguire le sue politiche nel solco liberista e nell’intenzione di tutelare gli interessi dei piccoli datori di lavoro e di una parte del mondo del lavoro autonomo.
Il tentativo di divaricare il mondo del lavoro svela in parte il vero obiettivo dell’attuale Governo ma mostra anche l’incapacità di dare una lettura aggiornata dei nuovi fenomeni sociali. Paghe basse, forme di lavoro precarie, ripensamento profondo (anche e soprattutto dopo la pandemia) del rapporto tra tempi di vita e lavoro, sembrano caratterizzare questa stagione.
Lo spostamento costante dell’economia dal manifatturiero al terziario ha stabilito la conseguente trasformazione del mondo del lavoro verso una polarizzazione marcata che vede da una parte lo sviluppo di una componente del lavoro intellettuale sempre più retribuita e sempre più ristretta e dall’altra, a differenza di quanto raccontato per anni dai seguaci della fine del lavoro, di una componente di lavoro manuale e esecutivo sempre più sfruttata, priva di tutele minime e polverizzata. 
La nascita di una nuova working class, molto complessa e dalle tante ramificazioni,  ci mette di fronte a un ribollire sociale che non riesce però ad esplodere e che la politica non riesce affatto a intercettare ma su cui anche il sindacato sconta difficoltà e ritardi. 
La vera sfida del futuro in fondo è questa, cioè la necessità di una rilettura gramsciana della società e delle classi o gruppi sociali subalterni, lo studio approfondito delle nuove domande che provengono dalla parte più disagiata e consistente del mondo del lavoro, in Italia e in Occidente, e la traduzione della domanda sociale insoddisfatta in risposte politiche adeguate. 
In una delle centinaia di assemblee sindacali della Cgil in preparazione della grande manifestazione di Roma del 7 ottobre, mi hanno colpito le considerazioni di alcune lavoratrici impiegate a tempo indeterminato e pieno in un’azienda manifatturiera, a dimostrazione che il problema oggi non risiede solo nell’aspetto duraturo del rapporto di lavoro. Il concetto affermato sottolineava come oggi lavorare non è più sinonimo di sicurezza sociale e di garanzia per il futuro, perché se pur lavorando con un contratto continuo e con il massimo dell’orario non si riesce a garantire una vita dignitosa alla famiglia, una casa, delle vacanze, il pagamento della retta dell’asilo nido, un futuro per i figli e contemporaneamente non si dispone neanche del tempo per poter vivere e coltivare le legittime passioni; allora improvvisamente si capisce perché il lavoro non sia più centrale nella vita delle persone e abbia perso quell’importanza che invece ha sempre avuto nelle società moderne.
A poco varranno gli appelli degli imprenditori che non trovano lavoratori disponibili, ancora meno valgono gli epiteti morali rivolti ai giovani che secondo molti non avrebbero propensione e voglia di lavorare, se non si prova a ricollocare il lavoro dentro un nuovo alveo sociale e se non lo si sottrae alla concorrenza con l’attività finanziaria.
Per intercettare questo cambiamento profondo e in continua trasformazione della società il sindacato ha bisogno di stare con l’orecchio a terra, nel territorio e nei luoghi di lavoro, ha bisogno di trasformarsi anch’esso nella mutazione del lavoro, mantenendo un orizzonte di politica generale che risponda e contrasti il nuovo corporativismo della società.
La lotta per un salario dignitoso e in linea con il costo della vita è la prima delle battaglie e dovrà caratterizzare l’azione dei prossimi anni, così come il contrasto delle forme di precarietà ci metterà di fronte alla necessità di ripensare e ricostruire un movimento per chiedere una profonda revisione delle leggi sul lavoro che hanno permesso il proliferare della precarietà; il terzo obiettivo ma altresì importante è la necessità di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario e di sviluppare più in generale le condizioni per una migliore qualità della vita e una gestione più adeguata delle nuove tecnologie.
L’Istat proprio qualche giorno fa ha certificato come il potere d’acquisto delle famiglie si è contratto nel 2022 dell’1,6% mentre i profitti delle imprese italiane aumentano nello stesso anno del 9,1%, come non succedeva dal 2007. 
Il contesto richiederebbe decisioni rapide e risorse per i lavoratori e le famiglie, le risorse non sembrano mancare così come l’ingordigia.