La casa al centro.
Riflessioni sull’abitare come gesto politico
di Benedetta Celati
Il lungo periodo del confinamento imposto dalla pandemia ha reso la casa, intesa come luogo nel quale le persone abitano, oggetto di una rinnovata attenzione. Il lockdown ha, in questo senso, stimolato lo sviluppo di una riflessione sulle implicazioni sociali dell’abitare, che, nella sua dimensione materiale e biografica, assume una valenza collettiva oltre che soggettiva. Non si tratta solo di aver modificato, per un tempo alla fine circoscritto, i propri stili di vita, quanto semmai di aver compreso, in maniera tangibile, come sottolinea Emanuele Coccia, che «la casa ha incluso così tanto mondo e così tanto «pianeta» da non lasciare più alcuno spazio residuo», divenendo essa stessa “un pianeta”. Nel ragionamento di Coccia, il domestico viene analizzato in contrapposizione dialettica all’urbano, per secoli palcoscenico della storia, soprattutto maschile, e naturale riferimento per le speculazioni dei filosofi.
Qualcosa sembra invero essere cambiato, seppure sottotraccia e senza passare per rumorose rivoluzioni. La casa, concetto al quale appartengono tutta una serie di richiami ancorati all’identità femminile, comincia, finalmente, ad essere riletta in chiave “politica”, subendo una torsione “riontologizzante” della quale prendiamo coscienza proprio grazie all’esperienza.
Il rientro del lavoro nelle abitazioni – tornate ad essere luoghi di produzione nella forma dello smart working – ha provocato un rovesciamento di prospettiva, riportando dentro ciò che stava fuori e viceversa. Questo moto pendolare del pubblico che si incontra col personale è inoltre espressione di un altro ricongiungimento, quello del centro che si riunisce col margine, della capacità cioè di partire dal sé e dal proprio vissuto per raccontare le contraddizioni del tempo nel quale si vive. È il riconoscimento dell’importanza del “sapersi situare”, del riuscire a valorizzare la posizione da cui si scrive, illustrata da bell hooks, quando descrive il focolare domestico «come sito della resistenza e della lotta di liberazione», all’interno di una società dominata dal suprematismo bianco.
La casa, rappresentata dalla sineddoche della stanza, è, infatti, anche il mezzo, come spiega Virginia Woolf, dal suo, differente, punto di vista, per trovare la propria modalità di relazione con il mondo e con il sapere e per combattere, così, la repressione, restituendo dignità a un’identità, altrove negata .
Unità elementare della cura (prima di tutto di sé stessi), termine sapientemente assimilato dal lessico normativo pandemico, l’abitazione, nel tempo delle eccezioni, viene allora riscoperta nella sua potenziale funzione di vettore per la ridefinizione della struttura economica e sociale.
Un esempio di questa politicizzazione del domestico, operata dal basso, è costituito dalla diffusione delle c.d. “comunità intenzionali”, categoria ampia utilizzata per indicare esperienze accomunate dalla scelta di condividere spazi di vita, tra le quali figurano gli ecovillaggi, i condomini solidali e il cohousing. Quest’ultima, in particolare, è una pratica che si sta sempre di più affermando nelle città del nostro Paese, in quanto strategia per unire le esigenze abitative dei cittadini all’offerta di servizi. Il Comune della Spezia, ad esempio, ha recentemente vinto il bando del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, denominato “Programma innovativo nazionale per la qualità dell’abitare”, con un progetto, realizzato dalla cooperativa Fabrica, fondato sulla rigenerazione di due ex scuole elementari con la formula appunto del cohousing. L’idea è quella di creare edifici dotati di spazi comuni non solo all’interno ma anche all’esterno, basati sul dialogo intergenerazionale, ovvero destinati a ospitare, in maniera trasversale, alloggi per gli anziani e per i giovani, nell’ottica di dare luogo a forme di “mutuo aiuto” tra le diverse fasce di età.
La creazione di condomini solidali si pone nel solco di quel processo, lungo e complesso, di rilettura del valore attribuito dalla società alle relazioni, interpretate come vere e proprie infrastrutture sociali fondamentali, al quale la pandemia, al pari di altri processi, come la digitalizzazione, ha impresso una straordinaria accelerazione, e che vede nei territori il proprio epicentro di sperimentazione. La pianificazione delle città, con l’organizzazione degli spazi pubblici, viene dunque ad essere lo strumento per condensare in maniera olistica le risposte alla molteplicità dei bisogni emersi negli ultimi anni, tra i quali figura la presa in carico delle nuove fragilità, legate alla precarietà dei rapporti economici e, di conseguenza, di quelli umani. Facendo leva sull’imperativo della transizione ecologica, che sembra oggi consentire la formulazione di analisi critiche nei confronti del sistema, o quanto meno legittimare posizioni di riforma intese a ottenere meccanismi più equilibrati di distribuzione del potere, il c.d. diritto di co-abitare diventa allora la formula con la quale riconoscere determinate istanze di socialità riflesse nella riconfigurazione degli assetti urbani.
Siffatto approccio caratterizza, segnatamente, una proposta di legge, depositata il 22 ottobre 2020 in Commissione Affari Costituzionali alla Camera, che prevede la disciplina giuridica delle “comunità intenzionali”, stabilendo la possibilità per le pubbliche amministrazioni di concedere a queste ultime l’uso e la disponibilità di beni pubblici e di immobili abbandonati, così come di farle partecipare a procedimenti amministrativi di gestione dei rifiuti, individuandole come soggetti gestori di riutilizzo, riparazione e riciclo dei medesimi.
La casa, margine che si presenta come riparo ideale dalle rovine del capitalismo, sembra poter essere, insomma, in una visione futuribile di architetture istituzionali alternative in via di progressiva definizione, il nuovo centro della città pubblica.