L'abbondanza della natura, la scarsità dell'economia

di Cinzia Scaffidi

Parlare di scarsità senza darsi una mappa, un perimetro, porterebbe a perdersi perché è una parola che spalanca troppe porte e che assume il suo segno – positivo o negativo – dal complemento di specificazione che la segue. 

Diamoci un ambito, quello della relazione tra natura ed esseri umani e del principale risultato di questa relazione: il cibo

Sulla questione della scarsità la natura e l’essere umano sembrano parlare lingue inconciliabili. 

La natura conosce e agisce il linguaggio dell’abbondanza. Con i semi contenuti in un solo pomodoro si può coltivare un intero orto nella stagione successiva. Con i semi ricavati da un’unica pannocchia si può produrre il mais necessario per un’intera famiglia. Un centimetro cubico di suolo sano può contenere svariati milioni di microrganismi. E lo stesso vale per un centimetro cubico di acqua di mare. 

Finché gli esseri umani hanno vissuto il loro essere natura, lo hanno accettato, riconosciuto e su questa consapevolezza hanno basato i loro pur complessi comportamenti, hanno fatto tesoro degli insegnamenti dell’abbondanza. E in regime di abbondanza non ha senso l’avidità. 

C’è abbastanza per tutti, ma soprattutto: nessuno ha bisogno di accumulare più di quel che gli serve. 

Il cibo, poi, è quanto di più lontano dalle logiche dell’accumulo. Con pochissime eccezioni, il cibo accumulato diventa cibo meno buono, meno nutriente, meno interessante. In qualche modo quel cibo non consumato la natura se lo riprende, attraverso le muffe, il marciume, la morte degli elementi nutritivi. Per questo siamo diventati così bravi a fare conserve: di frutta (vino incluso), di verdura, di carni, di latte attraverso i formaggi: il cibo “al naturale” non si può accumulare. 

In alcune epoche storiche abbiamo dovuto anche inventare leggi, e punizioni, per chi accumulava pane, sottraendolo a chi non poteva pagarlo. A volte, nella storia, quelle popolazioni povere sono andate a riprenderselo, il pane, con le buone o con le cattive, dando l’assalto ai forni.

Ed eccoci al punto. La scarsità intesa come vantaggio l’ha inventata l’uomo quando ha inventato quella che oggi chiamiamo “economia classica”. Il denaro è diventato la misura del valore. La scarsità in economia è la benvenuta perché si lega all’idea di pregio. Se la grandine facesse scendere diamanti dal cielo, probabilmente li spazzeremmo via, insieme alle foglie, dal vialetto d’ingresso. 
Questo incrocio dei percorsi non ha portato bene a nessuno: l’economia che considera in termini di pregio quello che in natura è scarso per ragioni di equilibro ci ha portati a dare la caccia all’ultimo tonno. Ma se in natura ci sono più acciughe che tonni, non è per consentirci di vendere i tonni più cari, ma perché vivono 40 volte più a lungo delle acciughe e ne mangiano, ad ogni pasto, moltissime. 
La logica della natura non ha mai a che fare con la nostra logica dei prezzi. 

Nelle dinamiche economiche la scarsità di un cibo è sempre conveniente per qualcuno, solitamente per pochi. Quei pochi, grazie al denaro, diventano sempre più potenti ed esercitano la loro potenza seminando scarsità: scarsità di biodiversità attraverso un sistema agricolo basato sulla monocoltura, che richiede input chimici che a loro volta creano scarsità di microrganismi del terreno; scarsità di nutrienti, in un cibo prodotto a costi sempre più bassi, che crea scarsità di diritti tra chi lo lavora e scarsità di salute tra chi lo mangia.
Un cibo abbondante, questo sì, e per questo di pochissimo pregio secondo le logiche economiche, che invade i nostri mercati e – troppo di frequente – le nostre discariche. Un terzo di tutto il cibo prodotto globalmente non sfama nessuno, alimenta solo l’abbondanza delle transazioni, senza produrre salute né bellezza né paesaggio, ma solo denaro. Questa abbondanza apparente, così diversa da quella che la natura ci potrebbe insegnare, sta producendo un nuovo e diverso tipo di scarsità, di cui abbiamo sostanzialmente perso il controllo: scarseggia il benessere, la giustizia, la libertà, la democrazia. Scarseggia l’equilibrio (delle menti, delle precipitazioni piovose, della distribuzione della ricchezza, delle relazioni) e nemmeno i più ricchi e potenti possono sottrarsi, oggi, alla riflessione, finora scarsissima, ma chiaramente in aumento, sul futuro che vogliamo costruire. 

Ripartiamo da qui, riprendiamo queste due parole – scarsità, abbondanza – e chiediamoci cosa vogliamo per il futuro nostro, dei nostri figli, dei loro figli: un mondo guidato dalla generosa abbondanza di natura oppure uno sottomesso all’artificiale e iniqua scarsità che ci insegna l’avidità dell’accoppiata denaro-potere.
La via d’uscita c’è, e come scrive Marcello Cini (Il supermercato di Prometeo, Codice Edizioni, 2006) non può che stare nel certosino lavoro che ci attende per «ripristinare le mille sorgenti del flusso locale di creatività, iniziativa e attività umane che rende fertile il tessuto della società, erigendo argini contro l’alluvione del capitale globale che (…) deforma la diversità (…) fino a ridurla a (…) disuguaglianza (…)».