La necessità di insegnare beni comuni
Una breve riflessione
di Nicholas Tomeo
Ha senso, oggi, insegnare beni comuni, soprattutto nei luoghi di formazione del sapere e delle conoscenze – ovvero delle coscienze –, in primis dunque nelle scuole e nelle università? E quale ruolo svolge tale insegnamento nei percorsi di formazione degli studenti e delle studentesse? Risponderò attraverso alcuni esempi.
Sui beni comuni si può sviluppare un discorso che verta almeno – ma non solo – su tre campi: beni comuni sotto il profilo storico, teorico e di pratica.
Circoscrivendo il discorso all'Italia, chiunque si addentri nell'indagine dei beni comuni da un punto di vista storiografico, si ritroverà ben presto a fare i conti con un passato millenario, spesso contorto e profondamente territoriale. Come si sa, i beni comuni rappresentano una forma alternativa, rispetto al dualismo pubblico-privato, di gestione e possesso di beni e/o servizi da parte delle collettività locali: volendo dirla con Carlo Cattaneo, che parlava di forme di gestione collettiva della terra, forse la prima forma di applicazione concreta del comune, si tratta di “un altro modo di possedere, un'altra legislazione, un altro ordine sociale, che, inosservato, discese da remotissimi secoli sino a noi”. Non si tratta, dunque, di una questione moderna che nasce con l'eversione della feudalità o meramente contemporanea ma, invero, bisogna quanto meno partire dal X-XI secolo, periodo in cui le comunità rurali riuscirono ad assumere sempre di più i contorni di entità politico-amministrative capaci di autogestire grandi porzioni territoriali e le risorse a disposizione. Certo allora non si parlava di beni comuni con l'accezione odierna, ma è pur vero che si trattava di forme di gestione delle risorse territoriali e collettive di cui le popolazioni locali avevano piena coscienza della loro necessità per vedersi garantita la loro stessa sopravvivenza. A ciò si aggiunga la profonda diversità, seppur all'interno di un quadro generale schematicamente comune, dei vari sviluppi di forme di gestione collettiva della terra sui vari territori.
Sotto il profilo teorico, si può certamente dire che parlare di beni comuni significa addentrarsi in un campo dai confini spesso labili e intangibili, aspetto questo che, al contempo, rappresenta la potenzialità e la debolezza di un tema che ancora oggi necessita di essere approfondito, investigato, sviscerato e studiato. Se è vero che due grandi approcci teorici sono di gran lunga i maggioritari, ovvero quello della tragedia dei beni comuni di tradizione neomaltusiana di Garrett Hardin e quello del governo dei beni collettivi della premio Nobel Elinor Ostrom, è altrettanto vero che la produzione teorico-scientifica, anche in Italia, soprattutto dalla seconda metà del '900, ha avuto una crescita notevole. Pertanto, da una parte la grande vastità del tema potrebbe rendere la cosiddetta teoria dei beni comuni tanto ampia sì da allargare i limiti della discussione fino ad includere materie e concetti non solo diversi tra loro sia per storia che per materia, come i pascoli e/o un edificio di valore storico e identitario, ma anche nuovi – si pensi all'idea della rete internet come bene comune in ragione del fatto che ad esempio la cultura, essa stessa bene comune, passa anche attraverso la conoscenza tramite l'accesso alle fonti open access online –, aprendo così nuovi fronti di discussione e spazi di accesso alla democrazia e alle libertà individuali e collettive; d'altra parte, però, e qui vi si rintracciano le basi della apparente debolezza della teoria dei beni comuni, l'immensità della questione rischia di allargare così tanto gli spazi della discussione finendo per rendere la teoria dei beni comuni come un qualcosa di estremamente caduco ed inconsistente e, pertanto, apparentemente poco pratico per la rivendicazione dei diritti. Senza inoltre tralasciare il fatto che la teoria dei beni comuni non può che essere un sistema di riflessioni e indagini dinamico e in costante evoluzione, che si modifica nel tempo e nello spazio: si pensi, per così dire, all'acqua o alle foreste, in un tempo storico in cui non solo il capitalismo finanziario tende a trasformare il valore dei beni necessari alla vita da uno di uso a uno di scambio, ma anche la crisi climatica innalza la rivendicazione di accesso alle risorse ecologiche nonché l'urgenza di una loro tutela e salvaguardia.
Così, ad oggi, nonostante i beni comuni, come ricorda Laura Pennacchi, appaiono essere come presupposti necessari alla vita sociale in quanto indispensabili alle società umane per la loro stessa sopravvivenza, manca una definizione comunemente condivisa di beni comuni, sebbene si è generalmente concordi, per dirla con Stefano Rodotà, nel considerarli come irrinunciabili strumenti funzionali all'esercizio che permettono di travalicare, secondo Paolo Maddalena, le basi individualistiche dei diritti, di matrice borghese e liberale, per abbracciare una visione collettivistica delle società.
Quest'ultima considerazione ci introduce nel campo dei beni comuni come pratica. Invero, ciò che risulta fondamentale tenere sempre in considerazione, è la natura performativa dei beni comuni che non si esauriscono in una pur sempre necessaria produzione teorica ma che, invece, azionano pratiche di rivendicazione – globali e locali – che permettono anche una sottrazione di alcuni beni comuni dalla compravendita e commerciabilità speculativa. Infatti, risulta di primario interesse investigativo non solo l'identificazione di quali beni e/o servizi possano o meno essere considerati comuni, ma anche le pratiche di commoning, ovvero quelle azioni che al contempo rivendicano un servizio, uno spazio, un luogo e così via come un bene comune e, inoltre, lo liberano dal profitto privatistico per riconsegnarlo alla collettività.
A questo punto, dunque, verrebbe da chiedersi se i beni comuni siano gli “oggetti” in quanto tali o, invece, sono le pratiche di commoning a rendere comuni quei beni. La risposta, inevitabilmente, non può che considerare entrambe le cose come funzionali le une alle altre, in un cui le une completano le altre e viceversa; così, per rispondere, prenderò in prestito ancora una volta la terra, ovvero la terra come res frugifera. Questa, infatti, bene comune in quanto complesso strutturale produttore di beni necessari alla sopravvivenza (il cibo) delle comunità locali, può essere pubblica, privata o, appunto, comune, ovvero in possesso alle comunità locali, ed è il caso delle proprietà collettive le quali, come magistralmente dimostrato da Paolo Grossi, antecedono, addirittura di secoli, le forme privatistiche di possesso della terra. Poniamo il caso di una proprietà collettiva esistente, ma silente e lasciata all'abbandono e, invece, la riappropriazione collettiva di ettari di terra pubblica di proprietà dell'allora Provincia di Firenze (oggi Città metropolitana), che dopo anni di abbandono e degrado viene rifunzionalizzata attraverso Mondeggi Bene Comune – Fattoria senza padroni. Da una parte, dunque, una proprietà collettiva, bene comune per eccellenza, iura in re propria nella casistica degli usi civici, ma nei fatti non utilizzato dalla collettività e, dall'altro, un bene pubblico, dunque non della collettività in senso stretto, ma invece lavorato dalla collettività attraverso i principi dell'autodeterminazione, del mutualismo e della cooperazione, ossia i principi propri delle proprietà collettive. Possono, in questo senso, essere considerate entrambi beni comuni? Certo che sì: la prima in quanto tale, ovvero in quanto forma storica, giuridica e antropologica della terra come bene comune, la seconda, invece, come un bene nei fatti reso comune attraverso una pratica di commoning.
In conclusione, tornando alle domande di apertura, alla prima domanda viene subito da rispondere di sì, l'insegnamento dei beni comuni ha senso nella misura in cui serve a sviluppare un ragionamento critico rispetto ad una dogmatica che troppo spesso ha reso l'approccio al mondo delle cose come prevalentemente individualistico; pertanto, problematizzare l'odierno anche e soprattutto storicizzandolo – e qui si risponde alla seconda domanda –, insegnare beni comuni serve a sviluppare una interpretazione del presente che sappia poggiarsi su basi concettuali plurime, di lungo corso e spesso divergenti.
Bibliografia
G. Corona, Breve storia dell'ambiente in Italia, Bologna, Il Mulino, 2015.
P. Grossi, “Un altro modo di possedere”. L'emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Giuffrè editore, Milano, 2017.
P. Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico, Roma, Donzelli, 2014.
E. Ostrom, Governare i beni collettivi, Venezia, Marsilio editore, 2006.
L. Pennacchi, Filosofia dei beni comuni. Crisi e primato della sfera pubblica, Roma, Donzelli, 2012.
S.Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Bologna, Il Mulino, Terza edizione, 2013.