Il lavoro?
Nell’estate 2023, il tema del lavoro è stato oggetto di riflessioni varie. Si è parlato molto della scelta del governo Meloni di sospendere il reddito di cittadinanza, nel mese più caldo dell’anno, così come del salario minimo, che ha reso le minoranze parlamentari protagoniste di un primo vero tentativo di opposizione unitaria.
A ben vedere, le questioni che vengono in rilievo sono più profonde delle mere notizie di cronaca. Si è finalmente accesa una luce su tematiche cruciali come quelle della povertà e del lavoro povero, che riguardano ormai una parte considerevole della popolazione. Parallelamente, nel dibattito pubblico si è sviluppato un forte interesse nei confronti della rinuncia al lavoro, fenomeno sempre più dilagante negli Stati Uniti ma anche in Europa.
Di “grandi dimissioni” si occupa in particolare il libro della sociologa Francesca Coin (Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita, Einaudi, 2023), che mette in risalto come nel post pandemia il numero delle dimissioni volontarie sia fortemente aumentato anche in Italia, in connessione alla povertà lavorativa ma non solo.
Scegliere di non lavorare implica assumere un punto di vista che fino a poco tempo fa veniva considerato residuale o di nicchia, ma che evidentemente grazie all’esperienza del lockdown ha subito una drastica risalita in generalità. Significa pensare al ruolo che il lavoro ha nella propria vita e nel proprio sistema di valori, in un momento storico nel quale il senso sociale di ciò che ci occupa si è decisamente smarrito.
In un simile scenario, può dunque accadere che si passi dal lavorare in modo esasperato (come avviene ad esempio in Paesi come gli Stati Uniti e la Corea del Sud, nei quali vacanze e tempo libero vengono concepiti in maniera negativa) al lavorare il minimo indispensabile, perché scarsamente coinvolti o entusiasti (il c.d. quiet quitting).
Questa constatazione anima anche il documentario After work (il cui emblematico sottotitolo è la domanda “Cosa faremo quando non dovremo più lavorare?”), dove il regista, Erik Gandini, propone un’indagine sulle implicazioni esistenziali del lavoro, chiamato in causa per gli effetti che produce sulla costruzione dell’identità personale ma anche rispetto alle derive, tutt’altro che anodine, dell’intelligenza artificiale.
L’occupazione di domani, infatti, non potrà che essere trasformata dalla presenza delle tecnologie digitali.
E se la tecnologia non è dotata di volontà, come sottolinea Noam Chomsky nel documentario, di sicuro lo sono i giganti della tecnologia, le Big Tech o GAFAM (acronimo usato per indicare Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), che estraggono valore dalla raccolta e circolazione dei dati, senza effettivamente redistribuire la ricchezza così accumulata all’interno del sistema.
Fondamentale diviene pertanto l’intervento del legislatore. Come sottolinea l’economista Francesca Bria, l’Unione europea ha un compito decisivo a questo riguardo. Sebbene nell’attuale quadro normativo manchi una adeguata considerazione dell’impatto degli algoritmi e delle piattaforme sulle condizioni dei lavoratori, il recente Regolamento europeo sulla governance dei dati viene, infatti, visto come un potenziale punto di partenza per aumentare il controllo da parte di chi “produce” i dati (lavoratore o cittadino) nei confronti di chi li “raccoglie”. L’obiettivo è (o almeno dovrebbe essere) favorire la partecipazione alla gestione di queste preziose risorse onde rendere possibile la condivisione dei benefici dell’intelligenza artificiale.
Questa direzione è peraltro dirimente per evitare che il lavoro diventi, per il tramite delle tecnologie, uno strumento di sorveglianza venduto come dispositivo di emancipazione.
La libertà, insomma, è sempre legata all’autodeterminazione.
E mi piace ricordare che la riappropriazione del lavoro come forma di autodeterminazione non coincide solo con audaci scelte individuali di rifiuto e di rinuncia, ma anche con grandi imprese collettive, come quella portata avanti, con coraggio, orgoglio e dignità, dalle lavoratrici e dai lavoratori dell’ex-Gkn di Campi Bisenzio per la reindustrializzazione dal basso di una fabbrica che non si vuole veder chiusa.