Musica, essenza della persona
di Beatrice Giovannetti
Ikigai è un termine giapponese che può essere tradotto in italiano come “ragione di vita”, “ragione d’essere”. Rappresenta l'intersezione di quattro elementi: ciò che costituisce il proprio sostegno economico, ciò che può apportare un cambiamento positivo al mondo, ciò per cui si possiede un talento naturale e ciò che amiamo fare.
Molte persone, se non la maggioranza, trascorrono anni alla ricerca di quella cosa che dà quel senso di compimento e gratificazione, e molte altre ancora giungono alla tarda età senza averla mai trovata veramente. Tuttavia, ci sono persone che hanno la fortuna di trovare il proprio Ikigai già nell'infanzia: i musicisti, ad esempio, fin dai primi elementari esercizi (deprimenti e noiosi, col senno di poi) riescono a trovare un nutrimento iper-dimensionato per l'anima, una tale spinta sufficiente a far trascorrere loro migliaia di ore della propria vita in solitudine, chiusi in una stanza in compagnia solo dello strumento.
I musicisti trovano così presto questo tesoro dal valore inestimabile che li accompagnerà per tutta la vita e fortunatamente la giovinezza dona freschezza, energia e volontà in abbondanza per poter affrontare un percorso così lungo e denso. In età adulta queste qualità vengono meno, non c'è più la gioia quasi ludica della scoperta e della novità, e il musicista trae le energie e la motivazione dal proposito virtuoso della musica e da un profondo senso del dovere nei confronti della bellezza: è un richiamo paragonabile a quello di una missione, per la quale è necessaria devozione e rispetto, e a questo si aggiunge il bisogno primario di un riconoscimento esterno del proprio valore.
In una sana misura, ciò non è da condannare come un fatto disonorevole, d’altro canto, è comprensibilmente umano il desiderio che i sacrifici fatti, portino, prima o poi, a un’approvazione, a un apprezzamento e all’ammirazione di chi ascolta.
In questo scenario è naturale che il musicista sviluppi un rapporto simbiotico con lo strumento che va a discapito delle altre aree della vita, ed è spontaneo considerare la musica come un aspetto totalizzante dell'identità dell’individuo: un musicista è un musicista prima ancora di essere una persona. Perciò, senza la musica la sua vita non può che essere manchevole, mediocre, limitata, arida e amara, ed è questa eroica e neo romantica visione, impressa a nostra insaputa nell'immaginario collettivo, a piantare i semi per una fatalità che spesso assume, purtroppo, il carattere di una tragedia.
È il caso della distonia focale del musicista, che è senza dubbio una delle peggiori diagnosi che un professionista possa ricevere: è una condizione neurologica che comporta la perdita di controllo motorio volontario delle mani o della bocca (è il caso della distonia dell’imboccatura degli strumenti a fiato): queste ultime si contraggono in spasmi e crampi improvvisi e impediscono al musicista di suonare normalmente. Davanti alla distonia non c'è solo il dispiacere che comporta la perdita di controllo di una parte del corpo, ma c’è anche lo smarrimento e l'angoscia per la perdita di un'abilità che è stata coltivata ogni singolo giorno della propria vita.
È qui che avviene la tragedia: nella dissoluzione improvvisa dell’immagine del sé, della scomparsa della propria “ragione d’essere” dalla quotidianità.
I musicisti che riescono a guarire sono molto pochi, poiché è difficile ottenere la giusta diagnosi ed è ancor più difficile intraprendere un percorso terapeutico efficace. In Italia non esistono percorsi sanitari specifici e dedicati e a peggiorare il quadro è lo stigma che accompagna i musicisti distonici: si ritiene ancora che la patologia derivi da “errori tecnici" e da uno “studio malsano e ripetitivo”, e che perciò la distonia giunga solo nelle mani di coloro che in qualche modo sono stati manchevoli di principi tecnici e didattici di cui tutti gli altri, invece, sono stati ben informati e che hanno avuto il buonsenso di praticare.
In realtà, studi recenti delineano un contesto complessissimo che favorisce la comparsa del disturbo: un ambiento educativo disfunzionale e abusivo, contesti socio-lavorativi nocivi, stress psicologico, traumi fisici e predisposizione genetica. Chi studia la patologia capisce che in Italia, già da decenni, è in corso una silente epidemia e comprende anche come il paese sia un terreno pericolosamente fertile per il suo sviluppo: i primi responsabili sono l’impianto educativo e didattico della musica, ancora fortemente tradizionale e privo di metodi di consapevolezza corporea, delle dinamiche sociali disfunzionali, che consegnano a determinati ruoli (l’insegnante o il direttore d’orchestra, ad esempio) una superiorità insindacabile e perciò viene loro concesso di trattare l’altro ignorando la separazione tra sfera privata e professionale e il muto accordo del rispetto reciproco, e infine, un contesto lavorativo che pone il musicista in un costante stato di angoscia e frustrazione. Un’angoscia dovuta al continuo stato di precarietà professionale al quale forse troverà sollievo dopo decenni di supplenze e impieghi fuori sede, e frustrazione per un’inesistente meritocrazia e per l’impossibilità di offrire la propria arte senza dover ricorrere a una fitta rete di conoscenze e scambi, divenuti purtroppo necessari in un ambiente in cui la musica è in fondo alle necessità di consumo del pubblico (pressoché inesistente), poiché la cultura è un prodotto superfluo, ignorato dalla politica e considerato alla stregua di un lusso.
In Italia la musica è un ecosistema autoreferenziale completamente sconnesso dal resto, e in tal senso qualsiasi cambiamento richiederà decenni di riforme e una viscerale rivoluzione all’interno delle istituzioni, nondimeno, la questione distonica ci spinge a un moto impellente: il crescente numero di musicisti affetti da distonia è il sintomo allarmante di un apparato intrinsecamente fragile e malsano e non solo pone la necessità di campagne di informazione e prevenzione, ma sottolinea l’urgenza di riformare dalle radici l’impianto educativo e professionale della musica e di avanzare in una nuova direzione, che consideri il musicista come elemento utile e inserito all’interno della società.