La giustizia spaziale per il metodo (come diritto)

di Marzia De Donno

Da almeno un decennio a questa parte, è andata strutturandosi nel dibattito scientifico europeo una riflessione sulla c.d. giustizia spaziale. A partire da alcuni apporti di importanti esperti degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, dal 2010 circa, soprattutto dopo il lavoro di Edward W. Soja (Seeking Spatial Justice), è approdato anche nel vecchio continente, e, in particolare, a Parigi, un modello teorico che punta essenzialmente a valorizzare la condizione umana nella sua dimensione abitativa, all’interno così come all’esterno delle città.
Si tratta di una interessante riflessione teorica che, in estrema sintesi, cerca di comprendere quali siano le situazioni di ingiustizia che si possono produrre su scala territoriale nei processi sociali, culturali, economici e, dunque, istituzionali, e, si prefigge, per tale via, di fornire alcune indicazioni sull’obiettivo ultimo cui essa ambisce: la costruzione di uno “spazio giusto” in cui possa svolgersi un’esistenza umana qualitativamente accettabile e svilupparsi, quindi, la stessa personalità umana (art. 2 Cost.).
Beninteso. Non si tratta di fornire soluzioni pronte né ricette efficaci, ma di porre al centro dell’attenzione essenzialmente un dato. E cioè, la necessità che vi siano “istituzioni giuste” in grado di predisporre un’organizzazione (anche amministrativa) dei luoghi, degli spazi e dei territori, in vista di un’equa allocazione (e redistribuzione) delle risorse e delle stesse opportunità indispensabili per rispondere ai bisogni fondamentali della popolazione (le c.d. capabilities).
Come sostiene B. Bret, quindi, la giustizia spaziale «ne doit pas être entendue comme une justice entre les lieux, mais comme la dimension spatiale de la justice entre les hommes». Pertanto, «la justice spatiale consiste aussi à corriger les injustices spatiales, à mettre en cohérence l’organisation du territoire avec un projet de société plus juste, à agir directement sur les lieux pour agir indirectement sur les hommes»[1].
Detto in estrema sintesi di cosa sia la giustizia spaziale, è quasi sorprendente notare che questa non è una teoria elaborata dai giuristi!
Nel dibattito italiano, per esempio, si tratta di un filone indagato dai geografi, dagli urbanisti, dagli architetti, in ambito sociologico e filosofico, ma non ancora particolarmente approfondito tra gli studiosi del diritto.
Ad onor del vero, tra i giuristi sono solo i filosofi del diritto ad aver ottenuto i primi e più interessanti risultati.
Partendo dalle elaborazioni di H. Lefebvre e, poi, di J.-B. Auby sul droit de e à la ville, da circa dieci anni a questa parte, i filosofi hanno, infatti, avviato una importante riflessione sulla c.d. svolta spaziale del diritto, frutto di una tendenza epistemologica atta ad indagare i rapporti tra la dimensione spaziale e le questioni normative.
Ed essa avrebbe permesso di riconoscere alle città, anzitutto, la valenza di lawscape, di nuovo spazio giuridico, e, quindi, di ammettere la stessa “territorializzazione” di alcune categorie giuridiche, come quella di diritti fondamentali. Al punto che questi ultimi non sarebbero più da intendere quali aspettative giuridicamente tutelate che spettano alle persone in relazione ad una comunità politica e giuridica statale o internazionale di riferimento, ma innanzitutto in quanto abitanti delle città.
Il riconoscimento della dimensione territoriale e abitativa dei diritti porta, quindi, ad un secondo ordine di riflessioni a proposito della c.d. città ostile: una città diffusa, che nega se stessa e che sgretola lo stesso concetto universale di cittadinanza, a causa, fra l’altro, di situazioni di segregazione e marginalizzazione urbana, di forme di discriminazione nel mercato del lavoro e della casa, o, ancora, di scelte distributive e localizzative compiute dai piani urbanistici che determinano una contrazione degli spazi pubblici e una riduzione delle possibilità di accesso ai servizi di prossimità.
Ma questo, appunto, è quanto accade nella filosofia del diritto.
Attualmente, infatti, il diritto pubblico italiano non conosce questo modello. Eppure, nella pratica delle amministrazioni pubbliche, ma, in fondo anche nella stessa Costituzione e nella legislazione amministrativa sono ben visibili le tracce della giustizia spaziale.
Basterebbe anche solo richiamare i principi di uguaglianza (sostanziale) e differenziazione territoriale, di prossimità, sussidiarietà e leale collaborazione, di solidarietà, coesione e perequazione finanziaria, i quali si reggono (o si dovrebbero reggere) all’interno di una cornice unitaria fondata sullo stesso principio di unità della Repubblica, tramite la garanzia di uniformità, in tutto il territorio nazionale, dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che l’art. 117 comma 2, lett. m) della Costituzione impone allo Stato di assicurare.
Si tratta di profili che non possono essere adeguatamente trattati in questa sede. Eppure, non ci si può esimere dal sottolineare quanto il richiamo all’architettura costituzionale del contrasto alle disuguaglianze territoriali, proprio nell’ottica della giustizia spaziale, sia divenuto cruciale e di forte attualità, ritornando nel recente dibattito pubblico e istituzionale sotto differenti sfaccettature e in conseguenza della c.d. “messa a terra” del PNRR, del percorso di attuazione del regionalismo differenziato, e poi ancora della necessità, espressa in sede europea, di avviare una transizione giusta dinanzi agli shock provocati dalla pandemia, dai cambiamenti climatici e dai recenti conflitti bellici.
La vera sfida del diritto sarà allora proprio quella di aprirsi ad un dialogo con le altre scienze sociali, per far sì che, anche attraverso modelli teorici non ancora approdati sotto il suo più stretto campo di visuale, si accompagnino e si governino – giuridicamente – le sfide sempre più complesse della modernità.

[1] B. Bret, Notion à la une: justice spatiale, in «Géoconfluences», sept. 2015.