Nel 16° rapporto CENSIS sulla comunicazione (indagine condotta nel biennio 2017-2019) emergeva che la Generazione Z – nati tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo - preferiva “incontrarsi dov’è l’immagine a farla da padrona” e che essere connessi (nel senso di connessione online) era il principale veicolo di socializzazione, intesa sia come processo di costruzione di relazioni sociali, sia come processo di acquisizione di norme e valori necessari a vivere nella società.
Sempre CENSIS, questa volta più recentemente, metteva in evidenza l’utilizzo dello screen per la maggior parte degli italiani (“L’Italia multiscreen del post pandemia”), sostenendo che “la digital life non è un modo di vivere e di pensare circoscritto a Millennials e Generazione Z, ma è fenomeno strutturale, che coinvolge tutti gli italiani, destinato a restare e a incrementare qualità della vita e benessere di tutti.”
Siamo proprio sicuri che la cosiddetta digital life, una modalità di vita cross generazionale in Italia, abbia avuto o stia avendo il potere di condurre a una migliore qualità della vita e a un benessere maggiore (quale benessere poi? Quello materiale, forse…)?
Proprio alcuni giorni fa sono stati pubblicati i risultati di uno studio condotto sempre da CENSIS per conto del CNG – Consiglio Nazionale dei Giovani - secondo i quali la generazione post pandemia (con focus su Millennials e Generazione Z) è spenta e sfiduciata. Giovani definiti “invisibili”, sempre di meno in termini numerici sul totale della popolazione italiana (che invecchia a vista d’occhio), sempre meno importanti e determinanti e, questo è il dato sociologicamente più preoccupante, orientati al futuro con un atteggiamento pessimista: soltanto il 22% immagina il futuro migliore del presente e ben il 40% lo pensa peggiore.
I giovani e i giovanissimi, che non si sentono rappresentati politicamente, osservano con sgomento che il PNRR dedica loro solo lo 0,12% delle risorse, e sebbene sognino di vivere in una società più inclusiva e meritocratica – perché è bene segnalare che inclusione/pari opportunità e merito possono e devono coesistere! – assistono a un gap crescente, dal punto di vista sociale, culturale, economico e politico, tra loro e la generazione degli over 65 della quale non hanno fiducia e che percepiscono sorda alle richieste che avanzano. Non stupisce che quasi un quarto dei giovani e giovanissimi abbia rinunciato a partecipare alla vita democratica attraverso l’astensione al voto.
Ecco, di fronte a tale quadro desolante, cosa dovremmo pensare? Innanzitutto, dovremmo evitare di esacerbare il conflitto sociale cross generazionale che a quanto pare è apertissimo, attribuendo colpe e responsabilità, a meno che non si voglia perseguire il passo logicamente conseguente, vale a dire che dopo aver trovato “i colpevoli”, non ci prendiamo la briga di proporre soluzioni plausibili. Ma mi verrebbe da dire: quali sono le soluzioni plausibili?
Il dramma, leggendo e analizzando la situazione in essere, non è che ai “giovani” non sia garantito un futuro, quanto l’incapacità che essi stessi hanno di immaginare o pensare un futuro. Ciò porta potenzialmente a una situazione di apatia sociale e, effetto ben più grave a una condizione di anomia, dalla quale si rifugge in cinque modi possibili, come suggerito dall’analisi offerta quasi un secolo fa da Robert Merton, tra i quali io vedo solo due applicabili oggi, vale a dire il “conformismo” – caratterizzato dall’accettazione degli obiettivi indicati dalla società, dati specifici strumenti istituzionalizzati - e la “ribellione” – caratterizzata dalla ricerca di nuovi obiettivi e nuovi strumenti. Nel primo caso vi è il mantenimento dello status quo e di un ordine sociale passivamente accettato, mentre nel secondo vi sono potenzialmente i germi del cambiamento. A me piacerebbe la seconda via…vedremo…