Resistere alla deriva neoliberista
Una riflessione sul ruolo della formazione e della ricerca nel ventennale della Fondazione Metes
di Tina Balì
Dobbiamo prendere atto che negli ultimi cinquant’anni il progetto egemonico che ha preso nome di liberismoha purtroppo stravinto! Come lo definisce la politologa Nancy Fraser “il capitalismo cannibale” o come dice il sociologo e fisico Marco D’Eramo che parla di dominio, si tratta di una guerra invisibile dei potenti contro i sudditi.
Nel disegno e nel programma del capitalismo neoliberista il lavoro è stato sempre più ridotto a merce, lavoro povero, svalorizzato e malpagato, utilizzato come leva per la competizione internazionale e non come strumento di redistribuzione della ricchezza, un mondo in cui la ricerca del profitto e il mercato senza regole producono miliardi di nuovi poveri e mettono in discussione le stesse possibilità della vita umana sul pianeta.
Come è avvenuto tutto ciò? Noi tendiamo ad attribuirlo a megatrends, alla globalizzazione, alla nuova rivoluzione industriale dei computer, a fenomeni oggettivi e statistici, alle crisi. Invece il fatto è che una guerra è stata combattuta. È stato un percorso lungo, ci hanno messo cinquant’anni e forse in questi anni, a parte la supplenza del sindacato, anzi della CGIL, la “sinistra” non ha agito abbastanza gli anticorpi e non ha agito abbastanza impegno perché era convinta che il pensiero di “sinistra” fosse il pensiero dominante, e non ci si è resi conto delle tendenze di lungo periodo, e non ci si è preoccupati di che cosa invece il neo liberismo faceva, occupando le accademie del pensiero, il mondo economico, le imprese e sostituendo la centralità del sistema produttivo con la finanza e poi occupando la cultura con il tentativo di uccidere il pensiero libero delle università, fino a schiacciare anche la ricerca e lo studio ad uso e consumo della propaganda a consenso elettoralistico.
Le conseguenze sono state quelle di creare un mondo in cui sempre più forti e prevalenti appaiono i valori della competitività e dell’individualismo, un mondo in cui entrano in crisi i valori della solidarietà, della comunità e dell’uguaglianza.
In questo quadro di trasformazioni si inserisce il più grande mutamento del XXI secolo: il passaggio della conoscenza da attività che libera ed emancipa a elemento performante e "abilitante" del sistema capitalistico della produzione di merci e servizi dentro una fase di accelerazione dell'innovazione tecnologica, in particolare applicata alla robotica e all'intelligenza artificiale.
Qual è il nostro compito oggi? Quale il nuovo modello di resistenza?
Giuseppe Di Vittorio al Primo Congresso delle organizzazioni sindacali dell’Italia liberata tenutosi a Napoli all’inizio del 1945 condivise questa importante intuizione: “il sindacato deve promuovere discussioni, assemblee, far partecipare i lavoratori alla vita sindacale, deve essere la espressione libera della massa. È attraverso una vita sindacale così concepita, non attraverso il burocratismo che si debbono formare e si formeranno i nuovi dirigenti”. Così come quando Bruno Trentin decise di costituire l’IRES, sapeva che il sindacato per poter avere un suo punto di vista su quello che accade ed essere capace di costruire un suo progetto di trasformazione politica della società doveva saper coniugare attività di ricerca con le attività di formazione.
Qual è dunque il compito della ricerca, dello studio e della formazione sindacale? Quello di aderire all’ordinarietà, quello di rispondere ai bisogni del momento, quello di tracciare strade, quello di avere la capacità di lettura anticipatoria dei processi di trasformazione e di cambiamento o quello di saper leggere i nuovi bisogni o anche quello di saper leggere, anche in chiave critica le dinamiche delle stesse organizzazioni sindacali?
Penso innanzitutto che il nostro compito non debba finire nel “qui ad ora”, ma avere chiaro che se ci hanno messo 50 anni a rovesciare il sistema politico economico e sociale, abbiamo necessità di un pensiero lungo e di strategia, ma essenzialmente dobbiamo assumerci una responsabilità.
Oggi la nostra battaglia deve essere mirata alla redistribuzione dei grandi profitti generati dalla globalizzazione e alla battaglia contro la precarietà.
E dal punto di vista culturale la nostra battaglia deve essere quella di seminare per riconquistare l’egemonia culturale.
Agire tenendo i piedi per terra nella quotidianità, nell’ascolto delle persone che “per vivere hanno bisogno di lavorare” ma allo stesso tempo avere capacità di visione, imparare a leggere non solo il tempo presente ma, attraverso le esperienze del passato, saper leggere il futuro.
Cercare di capire come cambia il lavoro e come cambia il rapporto tra impresa, lavoratrici e lavoratori a fronte delle innovazioni tecnologiche e degli impatti dei cambiamenti climatici, come sta cambiando il rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro, come sono cambiati i bisogni delle nuove generazioni, sono solo alcuni tra i tanti temi delle elaborazioni e dei momenti di approfondimento da cui dovranno derivare nuove pratiche di coinvolgimento e di rappresentanza.
Oggi la sfida che abbiamo di fronte è quella di interpretare le dinamiche globali e mettere in campo azioni locali affinché il bisogno di equità, giustizia e solidarietà divengano valori condivisi e prevalenti e il sempre più accelerato processo di cambiamento che coinvolge il nostro Paese e le disuguaglianze di un modello di sviluppo basato solo su crescita e profitto, necessitano che i contenuti di ricerca e formazione focalizzino su capacità di lettura del contesto per anticipare e contrastare le ricadute negative sul lavoro, sulle sue condizioni e sull’occupazione.
Ciò appare indispensabile per migliorare la capacità di rappresentanza delle organizzazioni sindacali, per contribuire a migliorare le condizioni materiali di chi vive e lavora, per contribuire a un modello di sviluppo sostenibile e solidale, insomma per essere trasformativi, per sovvertire il paradigma sociale, politico ed economico. In una parola: per fare Resistenza!