Esaurire l’inesauribile
Quella di scarsità è certamente un’idea dinamica, influenzata da fattori come lo spazio e il tempo, dalla dimensione fisica come da quella immateriale, dal posizionamento sociale e dalla struttura delle opportunità, dalle conoscenze disponibili come dai sistemi morali dominanti. Nello spazio fisico la percezione della scarsità (e dunque dell’esauribilità) è abbastanza facilmente rappresentabile: il petrolio, il carbone, l’uranio, il litio, per quanto in un primo momento abbondanti sono per definizione non rinnovabili (almeno sulla scala temporale umana) e dunque man mano che vengono utilizzati sono destinati, prima dell’esaurimento, alla scarsità.
Ovviamente su questa percezione premono diversi fattori: ad esempio la tecnologia, per cui alcuni attuali metodi estrattivi del petrolio erano inimmaginabili al tempo de I limiti dello sviluppo e dunque hanno spostato un po’ più in là quei limiti stringenti – l’attuale struttura dei prezzi sta lì a dimostrarlo, dove contano molto di più le strettoie geopolitiche, emozionali e speculative che quelle estrattive; inoltre, da molto tempo chi è abituato a riempire a (tutto sommato) basso costo il serbatoio della propria muscle car percepisce la questione in maniera del tutto diversa (o più semplicemente non la percepisce) da chi prova a forare gli oleodotti delle multinazionali per spillare una tanica di gasolio a rischio della propria incolumità. In ogni caso lì, nel cuore della nostra zona di comfort conquistata con la modernità, ogni tanto la scarsità fa capolino (la vicenda del gas in questi tempi di guerra lo ha dimostrato, al di là della reale dimensione della questione).
Più difficile è capire – e far capire – il sorgere della scarsità di acqua dolce, in un circuito apparentemente chiuso di continua ri-generazione (l’acqua dovrebbe essere effettivamente una ri-sorsa) che invece è stato spezzato da una molteplicità di fattori tutti di origine antropica. Certo, anche qui le cose cambiano nel tempo e nello spazio, per cui anche in tempi lontani dal cambiamento climatico gli esseri umani si dividevano tra chi faceva (e fa) decine di chilometri con l’orcio in testa per attingere a poca e sovente pessima acqua e chi, come gli Statunitensi, consumavano (e consumano) mediamente ciascuno – neonati compresi – la stessa quantità pro-capite quotidiana di un elefante per gli usi più vacui; ora, nonostante la persistente diffusione di campi da golf in California (in via di desertificazione), di coltivazioni idrovore in serra nel sud della Spagna (in via di desertificazione) e di cannoni sparaneve sull’Appennino centrale italiano (in crisi idrica, per ora), la percezione della scarsità dell’acqua sembra prendere piede, se non ancora piena considerazione, nell’opinione pubblica e nei decisori politici.
Ma forse occorrerà mettere sempre più al centro, con tutta la difficoltà che questo comporta, la questione della capacità tutta umana di esaurire l’inesauribile, di sperperare l’accumulo pazientemente accantonato, di minare le basi della propria autosostenibilità. Da un certo punto di vista, il depauperamento delle risorse culturali e immateriali - quella eredità morale in esaurimento di cui parla Fred Hirsch (richiamato da Alberto Tarozzi in un articolo di questo numero) fatta di relazioni, fiducia, comprensione della bellezza, orientamento all’altro, capacità politica e quant’altro – appare per certi versi più problematica dell’esaurimento delle risorse fisiche: per queste tutto sommato disponiamo di modelli previsionali non sempre accurati ma certamente indicativi, tanto da poter mettere in atto strategie di mitigazione (sempre capacità politica permettendo); ma che dire dello sperpero di capitale sociale accumulato, del degrado (non solo nella conservazione, ma anche nella capacità di accesso) del Patrimonio culturale, dell’attacco al Paesaggio, del flusso della Giustizia (Maria Pia Gasperini), della capacità intergenerazionale di trasmettere conoscenza e sapere?
Per non fare i conti nelle tasche altrui, questa preoccupazione (senza voler essere catastrofisti a tutti i costi) dovrebbe essere sentire comune nel nostro Paese, proprio per il patrimonio reputazionale accumulatosi nel tempo lungo del suo territorio, laddove invece proprio in diversi ambiti, tra i quali quelli sopra indicati, sembra evidenziarsi una sorta di destino dei Buddenbrook, a volte addirittura con passaggi generazionali più brevi.
Ci permettiamo alcune sintetiche proposte esemplari, soggette ovviamente a dibattito: si campa di rendita sulla reputazione del nostro Patrimonio culturale, materiale e immateriale, non avendolo di fatto più nutrito in investimenti alla conservazione e tutela, riproduzione, valorizzazione attraverso il lavoro (se non nei ‘soliti’ punti e non sempre con efficacia) – una vera ri-sorsa la cui riproducibilità è fortemente minata; lo sgretolamento delle tradizioni solidaristiche di ispirazione socialista el’indebolimento di quelle cattoliche, che hanno caratterizzato da più di un secolo l’agire laboristico, volontaristico, comunitario e amministrativo nei territori dove pure erano anche in contrapposizione, hanno lasciato dietro di sé ancora società civili con segni di ‘tenuta’, ma sempre più zattere tra le onde alte dell’individualismo metodologico e del neoliberismo dominanti degli ultimi decenni.
Non più nutrito (né culturalmente né politicamente), quel ‘capitale’ è uno stock a rischio di esaurimento, proprio come il petrolio. Analogamente, altri pilastri del welfare come la sanità (tradotta in salute) e l’educazione universali non dovrebbero entrare nel regno della scarsità ma è ciò che sta effettivamente avvenendo proprio per l’esaurimento delle loro sorgenti ‘culturali’ prima ancora che economiche: privatizzare la sanità e minare l’accesso universale alla formazione sino ai suoi livelli superiori porta questi diritti nel regno della scarsità e dunque della competizione per ottenerli.
Ricorda John Ruskin: “Il potere di una ghinea che abbiate in tasca dipende esclusivamente dalla mancanza di una ghinea nella tasca del vostro vicino”. La scarsità appare dunque anche uno strumento di potere: la sua stessa comparsa, quantomeno su una scala temporale umana, ha a che fare con la questione della distribuzione e dell’accesso; persino per ciò che è finito si potrebbe pensare ad un uso che, sul versante della sobrietà, avrebbe potuto coincidere con un orizzonte temporale lunghissimo ma che, sul versante del sovrasfruttamento, ha determinato un fenomeno molto più rapido di scarsità e di iniquo accesso alla ‘risorsa’, e di squilibrio di potere tra chi ha e chi non ha (o non ha più).
Che questo saccheggio si sia ampliato verso ciò che è potenzialmente inesauribile – l’acqua nel suo ciclo chiuso, l’eredità morale nel suo rigenerarsi, la comprensione della bellezza, l’orientamento all’altro – dimostra come la scarsità sia un potente motore di iniquità, tra chi accede in maniera irristretta su base economica alla sempre minor disponibilità di acqua e chi non può farlo, tra chi paga i costi elevati (generati dalla scarsità) del proprio rimanere in buona salute e chi può sperare solo nella buona sorte, tra chi accede ai top hub universitari di nuovo, ancora, su base censuale e chi è destinato alla retrocessione culturale per mancanza di risorse (economiche), e così via.
Le scarsità, dunque non sono un destino ineluttabile: in molti casi – forse nella maggioranza dei casi – sono costruzioni sociali, e come tali dipendono da scelte sociali.
Abbiamo citato:
F. Hirsch, I limiti sociali dello sviluppo, Bompiani, Mi 2001 (ed. or. 1976)
T. Mann, I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia, Einaudi, To 2004 (ed. or. 1901)
J. Ruskin. A quest’ultimo. Quattro saggi di socialismo cristiano, Marco Valerio Ed., To 2003 (ed. or. 1860)