Umani (e) animali

Omaggio a Ettore Tibaldi

di Marco Giovagnoli

Nella vastità dei punti d’osservazione dai quali il tema ‘animali’ può essere osservato, il sociologo territorialista che si occupa anche di cibo ne sceglie arbitrariamente due, quello del territorio e del paesaggio creati dal lunghissimo rapporto tra esseri umani e animali, e quello dell’esito alimentare dell’interazione tra le due sfere, esito spesso nefasto per i secondi. Insomma, ci si occupa di relazioni. E alle relazioni fa riferimento, in una dichiarazione, apparentemente semplice ma geniale, una persona che invece gli animali li conosceva bene in primo luogo a partire dal punto di vista della zoologia, essendo appunto uno zoologo. Nel 2008 scompare – come si usa dire ‘precocemente’, a 63 anni – Ettore Tibaldi, non prima di aver scritto il proprio necrologio (il necriculum, redatto a partire dalla propria morte per andare a ritroso nel tempo) ed averlo affidato a due suoi collaboratori. Accademico non-accademico, insofferente ai riti e alle convenienze accademiche (compresa la liturgia delle pubblicazioni fatte per la carriera e per l’approvazione dei gran Sacerdoti del citazionismo – chissà cosa avrebbe pensato dell’era dell’ANVUR…), ha insegnato Zoologia applicata all’Università di Milano e poi, una volta uscitone, per poco anche alle Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Ha frequentato e praticato la cooperazione internazionale, essendo stato anche tra i fondatori del CESVI, con un indirizzo sempre attento, tra le altre cose, alla questione dell’alimentazione, del suo accesso, delle sperequazioni sulla sua disponibilità ma anche sulla pluriformità delle pratiche del cibo nei vari angoli del mondo. La prima immagine che viene in mente pensando ad Ettore Tibaldi dovrebbe essere quella della sua profondissima competenza, spesso sorprendente nel rovesciare assunti comuni, o anche la sua incantevole capacità oratoria, ma per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo ciò che viene in mente immediatamente è la sua estrema gentilezza, era una persona dai modi gentili nelle sue interazioni pubbliche e personali, in qualsiasi circostanza ci si potesse trovare.
La dichiarazione cui si faceva riferimento all’inizio è contenuta nel suo straordinario libro Uomini e bestie, con sottotitolo Il mondo salvato dagli animali, uscito per Feltrinelli nel 1998, ed ha più o meno questo senso: ovviamente l’antropocentrismo è una logica aberrante e ben vengano le crescenti opposizioni, anche sotto forma di movimenti, a tale logica (oggi ancor più diffuse), ma malgrado le migliori intenzioni l’abbandonare il nostro umano, troppo umano punto di vista è impossibile; giusta la compassione per il topo da laboratorio, e quindi si sta ‘dalla parte del topo’, ma essere topocentrici ci è davvero impossibile.

Non ci resta, allora, che tentare di comprendere con maggiore attenzione la relazione tra noi e loro [gli animali], e raccogliere i segni e i sintomi del cambiamento che si sta attuando in questa relazione.

Il libro dunque parla di relazioni, scegliendone sette e relazionandosi agli animali in quanto descritti, addomesticati, accarezzati, mangiati, protetti, messi in mostra e immaginati. Con un escamotage che troviamo ad esempio anche nel Vino al vino di Mario Soldati, ciascun capitolo (là erano paragrafi più brevi) è introdotto da una sorta di ‘abstract’, e dunque per Descritti si parla del lavoro di chi li descrive gli animali (il suo, dunque), del piacere e dell’utilità del farlo, partendo dal racconto di una sua casuale scoperta (presso l’impianto nucleare del Garigliano) di un piccolo crostaceo del quale non aveva idea di che specie fosse, e che risultò poi effettivamente ‘nuovo’, tanto che due suoi colleghi olandesi lo studiarono evocando il suo nome nella pubblicazione della scoperta (Echinogammarus tibaldii); o sottolineando – una sua caratteristica enunciare con nonchalance cose sorprendenti – che nel Mediterraneo non esistono merluzzi (Gadus morhua) ma così vengono chiamati i naselli (Merluccius merluccius). In Addomesticati si parla della ‘amicizia’ tra esseri umani e animali e dei complessi processi di domesticazione degli animali, che ci dice che la storia degli animali si intreccia strettamente a quella degli umani divenendo fonte di mutamento per gli uni (gli umani e la loro storia sociale) e gli altri (gli animali, con qualche dubbio sulla ‘naturalità’ del percorso); rimane centrale ai nostri occhi l’affermazione per cui

se si rompe e si interrompe la simbiosi tra le culture umane e le nature animali si perdono, anche, le ipotesi di un futuro sostenibile o, almeno, tollerabile.

Ma il passo successivo è quello dell’accarezzare, ossia del portare gli animali entro la sfera dell’affettività e delle mura domestiche. Si comincia coi gatti, i più emblematici tra gli animali familiari i quali, partiti dall’Antico Egitto (nel momento del massimo splendore venivano cresciuti, uccisi e mummificati per il loro evidente valore divino), subiscono un processo di contenimento della taglia del quale l’eco più evidente è il termine inglese pet, ossia beniamino, ossia piccolo; mentre il detto ‘dormire con le galline’ è, appunto un modo di dire, con i gatti ci si dorme davvero, in un processo progressivo di infantilizzazione, esito di un processo consapevole, per cui

il pet ideale è un cucciolo eterno, di piccola taglia, con grandi occhi, pelliccia morbida, carattere mite e giocoso.

Non solo gatti: tra le poche razze canine pet dell’antichità spicca la pechinese, e i cui esemplari in Cina erano molto attenzionati, malnutriti, contenuti in spazi piccolissimi, drogati per ottenere appunto le piccolissime dimensioni; i cagnolini maltesi erano curativi (per i dolori dello stomaco, appoggiati sullo stesso), antesignani della pet therapy oggi molto diffusa, per la quale si osserva una curiosa inversione tra esseri umani che si dedicano al benessere animale e animali che si dedicano al benessere degli umani. Come non ricordare tuttavia il pesce rosso, probabilmente l’animale più diffuso assieme ai suoi consimili nelle case italiane, oggetto di cura ma soprattutto di osservazione, di inserimento in acquari spesso immaginifici, un animale poco esigente ma sovente

destinato in diversi casi a morire per incuria o per somministrazione di cibo inadeguato. Tuttavia, è possibile prevedere che, ogni 100 pesci rossi ‘uccisi’ con la mollica di pane da un bambino volenteroso ma ignorante della corretta alimentazione, almeno un caso di sopravvivenza determina il fatto che nasca si mantenga per qualche anno in quella casa la passione per l’acquariologia.

La cura degli animali, esseri viventi che necessitano di dedizione come l’accettare ritmi diversi da quelli sociali, si espande verso territori più complessi rispetto a quelli degli animali ‘tradizionali’, dalle tartarughe di acqua dolce alle iguana di gran moda dopo Jurassic Park (ma anche leoni e tigri…), dagli uccelli parlanti come il merlo indiano ai piccoli pappagalli del genere Amazona, molto ricercati per la loro eloquenza ma, nel complesso rapporto della ricerca dell’animale parlante, oggetto di un equivoco, quello per cui si pensa che

loro parlino con noi, quando invece, per noia, per gioco, ci imitano.

Sino alla comparsa – pionieristica quando Tibaldi scriveva ma oggi del tutto scontata, dell’animale elettronico del quale prendersi cura, pena la sua sofferenza o addirittura la morte, il famoso tamagotchi. Ovviamente gli animali vengono anche mangiati, o in prima battuta spesso sacrificati, come nelle antiche culture, proprio per esorcizzare la morte (umana): ma come non ricordare l’immenso contributo in termini di vite sacrificate offerto dagli esemplari della specie Dactylopius coccus per la felicità di generazioni di adepti dell’aperitivo (quello rosso, per intenderci)? In ogni caso sovente gli animali entrano, nel loro essere mangiati, in dinamiche prettamente sociali: se allevati nei ‘Centri industrializzati’, sono pessimi convertitori di energia (consumano troppe risorse cerealicole rispetto all’output, ossia loro stessi macellati), ma al contrario funzionano bene al pascolo (dove non solo non competono con gli umani ma risultano più utili da vivi che da morti, tra fertilizzazione del suolo ‘gratuita’ e prodotti lattiero-caseari e filati); sta di fatto che l’inefficienza del loro allevamento intensivo ne determina la destinazione, ossia ai ricchi che se lo possono permettere:

solo i livelli più elevati delle gerarchie sociali potevano avere carne a sazietà e i poveri si trovavano sovente ridotti a essere vegetariani. Non per amore (degli animali) ma per forza.

Gli animali spesso incappano in tabù sul proprio consumo: così la vacca, così il maiale (per le religioni), o l’insetto (per una parte dei consumatori mondiali, quella occidentale nello specifico, salvo come abbiamo visto per la cocciniglia), con la rilevante eccezione del Gallus pollus, il pollo, che invece viene apprezzato ovunque ed anzi sempre più ‘specializzato’ nel produrre di sé le parti più apprezzate:

in Italia la produzione di polli ‘da carne’ (cinicamente denominati broilers, che in inglese significa ‘da cuocere alla griglia’) copre circa un terzo dei consumi di carne.

L’altra faccia del rapporto umani/animali è la protezione. Spesso tale status è ‘certificato’ dal lavoro degli esperti e sanzionato da convenzioni internazionali, dalle quali si evince che

tutti gli animali sono uguali, ma ve ne sono alcuni più uguali degli altri. Ve ne è anche qualcuno ritenuto ‘più animale degli altri’.

La protezione degli animali ha molto a che fare con la distruzione dei loro habitat naturali, per la quale l’estinzione (o il rischio di estinzione) della specie ne è spesso la conseguenza, come si è visto con uno degli ‘animali-bandiera’ più famosi, ossia il panda gigante. Nel secondo dopoguerra nascono diverse iniziative volte alla protezione animale, tra le quali – su spinta dell’Unesco – la IUCN (International Union for the Conservation of Nature and Natural Resources) nella quale spicca la commissione SSC (Species Survival Commission) con il suo segretariato esecutivo SP (Species Programme), entro il quale viene stilata la ‘lista rossa’ degli animali in via di estinzione. Il ruolo di questi ed altri soggetti è stato di grande importanza, così come molte iniziative a livello locale nel Sud del mondo (che Tibaldi conosceva bene, anche da protagonista), e il riferimento al Sud non è casuale:

lo sviluppo, e quindi anche lo sviluppo sostenibile, è una relazione tra soggetti e oggetti. La maggior parte delle specie minacciate o in via di estinzione si trova nei paesi della Periferia mondiale dove, come noto, i livelli di povertà sono più drammatici.

E dove il ritorno economico di un ‘prodotto animale’ (il corno di rinoceronte, il pene di tigre, il corallo rosso, l’avorio, la tartaruga, i pappagalli ‘parlanti’) è “terribilmente attraente, quasi irresistibile”. Tra gli squilibri economici e quelli ambientali esiste una connessione precisa, e le ‘diseconomie’ diventano facilmente ‘disecologie’. Ma la direzione verso una riconsiderazione del rapporto umano/animale passa anche dalla definizione di uno status giuridico assegnabile non più alla specie, ma all’individuo, ossia all’‘esemplare’, e da questa indicazione di Tibaldi molta strada è stata fatta, nelle difficoltà, per la protezione degli animali. Nell’era delle immagini non può mancare la messa in scena degli animali, anche se il mostrarli come ‘meraviglie’ o ‘mostruosità’ (ma sovente i due aspetti si sovrappongono) ha radici antichissime, nei Centri imperiali mondiali europei come asiatici, spesso destinando la visione e il godimento solo a pochi eletti come, ad esempio, nei giardini zoologici nei pressi delle residenze dei monarchi (in analogia ai giardini o agli orti botanici, ad esempio), eretti a maggior gloria del potente di turno. Poi si passa alla museificazione, tra intenti scientifici e voglia di stupire, i primi particolarmente presenti a partire dall’Illuminismo ed in particolare quello francese (il Museo nazionale di storia naturale del 1793); la contemporaneità porta gli animali sui media, e lo fa mettendoli in scena in maniera anche paradossale, come l’Oliviero Toscani che sensibilizza i lettori di Colors con immagini di animali schiacciati sull’asfalto dai veicoli che sfrecciano sulle strade d’Europa, oppure attraverso le copertine patinate dei nuovi rotocalchi di tendenza (quelli ‘di viaggio’, in particolare). L’affinamento delle tecniche di ripresa rende, con particolari inquadrature (dal basso), un’iguana simile ad un dinosauro, o un pidocchio, al microscopio a scansione (b/n, poi colorato per maggior impatto) un mostro da fantascienza; c’è poi l’epopea del cinema, dove gli animali non sono comparse ma protagonisti – come in Gorilla nella nebbia del 1988 e ovviamente, indietro nel tempo, Tarzan l’uomo scimmia del 1932 – spesso sempre più ‘costruiti’ a tavolino o, meglio, nei laboratori – come non ricordare Lo squalo del 1975 o, ça va sans dire, Jurassic Parkdel 1993? E, ultimo ma non da meno, l’universo pubblicitario che ha letteralmente saccheggiato il mondo animale, dove la bestia è testimonial o, per sua sfortuna, oggetto della vendita e dunque testimonial di sé stessa. Per questa via non si può non arrivare agli animali immaginati, passando per la loro iperrappresentazione come simboli di un’era, siano il cormorano ricoperto di nafta durante una delle guerre del Golfo, lo squalo avvistato in Riviera, il topo radioattivo di Chernobyl, il gatto cosparso di benzina e mandato a correre, una volta dato alle fiamme, nei magazzini per bruciare tutto (e scomparire come prova) e permettere ai lestofanti proprietari di riscuotere l’assicurazione. Ma Uomini e bestie fa in tempo ad intercettare la nascita dell’universo virtuale, prima con giochi nei quali si richiede assistenza e cura ad esseri inesistenti ma reali nella loro interazione (ad esempio il già citato tamagotchi, dunque un ‘biogioco’), poi con la simulazione evolutiva ad opera dei sistemi di elaborazione dei dati applicata alle forme del vivente:

le formiche virtuali, i parassiti, gli scarafaggi, i woggle, le meduse, i criceti e un’infinita serie di altri di entità che ‘popolano’, per così dire, i sistemi di calcolo sembrano dimostrare che i confini tra vita reale e virtuale sono sempre più evanescenti.

Per non parlare dei virus, animali virtuali mutanti e temibili negli ecosistemi digitali. Avendo dedicato un libro alla zoologia fantastica, Tibaldi ricorda di essersi posto la questione della ‘tutela’ della fauna fantastica, le chimere, che popolavano l’immaginario del passato ed erano minacciate dalla avanzata della civiltà moderna, ma la rivoluzione digitale ha eliminato questo problema, magari creandone un altro opposto circa l’incontrollabilità della nuova produzione di ‘mostri’, propiziata dal nuovo cyberspazio (qui viene citato il suo inventore, William Gibson, 1984): questi ‘mostriciattoli’ sono superiori agli animali reali, non rilasciano escrementi e sono anche ‘intelligenti’. Il naturale e l’artificiale vengono a contatto:

quella che all’inizio era sembrata solo una bestia, e che poi era divenuta segno, simbolo, oggetto e soggetto, mostro e metafora, angelo e demonio, può sempre, infine, manifestarsi a noi per quello che è, nella sua terribile complicazione, nella sua affascinante complessità: un animale.

Perché Tibaldi ci aveva ricordato poco sopra, richiamando il pensiero delle migliori menti antiche e contemporanee, che nulla di veramente nuovo si manifesta e quindi le cose complicate sono sgradevoli e, invece, quelle complesse possono dare piacere. Dunque, gli animali

sono specie, sono individui, hanno uno spazio, un tempo, un territorio e un corpo. Per nostra fortuna continuano a essere. Ci sono. Nel senso che sono a noi e da noi. E non sono solo cose.

L’articolo si basa sul volume di Ettore Tibaldi Uomini e bestie. Il mondo salvato dagli animali, Feltrinelli 1998. Nel testo si evoca anche il suo Introduzione alla zoologia fantastica, Editiemme 1980.