“I lavori cominciano all’alba. Ma noi cominciamo
un po’ prima dell’alba a incontrare noi stessi
nella gente che va per strada….La città ci permette di alzare la testa
a pensarci, e sa bene che poi la chiniamo”
(C. Pavese, Disciplina,
in Poesie. Lavorare stanca. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi,
Torino, Einaudi, 1961)
Racconti e poesie del Novecento ci consegnano l’immagine che “lavorare stanca” ma le cronache più recenti ci invitano a riflettere sul fatto che talvolta “lavorare uccide”.
I romanzi sul lavoro del nuovo millennio dedicano ampio spazio ad un compito, civile e intellettuale insieme: quello di ricordare, di testimoniare, di strappare dal silenzio e dall’invisibilità le storie dei più deboli (le/i migranti, le operaie e gli operai, le lavoratrici e i lavoratori precari).
Il costo della vita (Torino, Einaudi, 2013) di Angelo Ferracuti è un esempio cristallino di inchiesta narrativa che vuole far «esistere» la vicenda di tredici operai dei cantieri Mecnavi di Ravenna morti asfissiati nelle stive della nave «Elisabetta Montanari» il 13 marzo 1987 mentre eseguivano lavori di ripulitura.
Una delle frasi migliori con cui si potrebbe condensare il contenuto e il senso dell’importante libro di Angelo Ferracuti l’ha scritta un personaggio da lui distante come Oscar Wilde. L’epigrafe di un capitolo del suo libro recita così: «Una cosa di cui non si parla non è mai esistita».
Allora, forse, è tempo di ragionare ad alta voce sugli incidenti nei luoghi di lavoro. Come ci ricorda Silvia Avallone in Acciaio (Milano, Rizzoli, 2010): «Incidente si dice. Chiamiamo i fatti contro cui ci schiantiamo con questo nome. Non si capisce se l’uomo disteso fra le lamiere è un cadavere oppure respira».
Un morto sul lavoro è un nome tra i tanti. Un numero tra i tanti. Ma anche i numeri contano se si accompagnano a corpi che li sorreggono, a storie di persone che attraversano l’universo del lavoro. In Italia gli infortuni mortali sono ogni anno molti, troppi (al di sopra del migliaio) ovvero tre al giorno. Il nostro Paese ha detenuto il record in Europa di morti sul lavoro in valori assoluti e quello sull’età media di chi muore al lavoro.
Sebbene nella valutazione degli incidenti mortali o gravi assuma un ruolo centrale lo stretto legame che intercorre tra incidenza infortunistica e altri elementi quali la dimensione dell’azienda, la condizione lavorativa e l’anzianità di servizio dell’infortunato, i dati dell’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (Inail) da soli non sono sufficienti. A fermarsi lì, il fenomeno morti e infortuni sul lavoro sarebbe sottovalutato, per due ordini di ragioni molto semplici. La prima, perché – essendo cifre fornite dall’ente assicurativo – non si prende in considerazione il lavoro nero ed è noto che in Italia i lavoratori non regolari sono stimati dall’Istat intorno a tre milioni. Studi autorevoli calcolano in circa 200 mila gli infortuni annuali nel sommerso. Seconda motivazione, le statistiche ufficiali non comprendono il numero dei morti per malattie professionali.
I dati sono oggetti spesso inafferrabili. Ce ne sono tanti e spesso vanno selezionati secondo una chiave di lettura. E a seconda del taglio interpretativo opzionato, il senso delle considerazioni può cambiare anche radicalmente. Ecco perché è necessario raccontare storie, per capire.
All’alba del 6 dicembre del 2007, scoppia un incendio alla linea 5 dello stabilimento di Torino della Thyssen Krupp. I morti sono sette, Antonio Schiavone muore sul colpo, e poi lunghe agonie, Roberto Scola, Angelo Laurino, Bruno Santino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò, e ultimo, Giuseppe Demasi, che muore il 30 dicembre.
Ferro e fuoco. Sette operai devastati che impressionano l’Italia, che per giorni catturano l’attenzione di giornali e televisioni. Sette morti che sembrano quasi riscattare la figura dell’operaio dalla sua morte apparente. Sono molti anni che la classe operaia è data per morta, cancellata, non più rappresentata né dai mass media né dalla politica, ammutolita. Poi, d’un tratto, schermi e pagine si sono accorte che la classe operaia c’è ancora. Che è stata sconfitta, sì, ma non è ancora scomparsa.
Periodicamente riesplode la polemica sui controlli. I controlli sì, questione dolorosa. Sulla situazione generale ci sono dati recenti che davvero parlano da soli.
Il ragionamento si sposta così sulle regole.
Le leggi, anche quelle più avanzate come il testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro del 2008 – composto da più di 300 articoli e da oltre 50 allegati e nato proprio dopo la tragedia della Thyssen Krupp – è impostato sulla prevenzione ossia sul principio secondo cui l’imprenditore, nell’organizzare la propria attività, ha la responsabilità di garantire sicurezza e salute ai dipendenti in tutti gli aspetti connessi al lavoro. Deve nominare un responsabile della sicurezza, valutare adeguatamente i rischi, definire le misure di prevenzione e protezione, tra le quali rientra la formazione del lavoratore. Del resto è scritto nello stesso Codice civile che la sicurezza non può essere subordinata a criteri di mera fattibilità economica e produttiva. Il testo unico concepisce la sicurezza come un insieme integrato dove le lavoratrici e i lavoratori sono parte attiva. In questo senso, centrale è il ruolo dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza. Il loro parere sulle questioni della sicurezza è obbligatorio, anche se non vincolante, e possono avanzare proposte. Ma la legge va applicata. Ed è senso comune come non si possa davvero applicare se le lavoratrici e i lavoratori, che sono il soggetto tutelato, non siano in condizione di esercitare quei diritti che gli sono garantiti dalla legge stessa.
L’adozione del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, ha costituito un punto di arrivo che ha fornito alcune risposte in tema di valutazione dei rischi e sorveglianza sanitaria, essendo il risultato di un coordinamento tra norme di vasta portata che si muovevano in più direzioni, ma è stato anche un punto di partenza, vista la quantità di provvedimenti attuativi e considerate le richieste di miglioramento su prevenzione e formazione avanzate dalle lavoratrici e dai lavoratori. Le imprese, invece, hanno continuato a giudicare le misure troppo sbilanciate sul profilo sanzionatorio.
Al di là del dibattito sulla necessità delle ispezioni o sull’introduzione di norme più stringenti (o addirittura di una Procura nazionale in materia di sicurezza sul lavoro), forse, è giunto il tempo di proporre un altro parametro che agisca sulla percezione culturale del fenomeno delle morti sul lavoro, ossia sulla loro ineluttabilità.
Sembra normale e naturale che qualcuno muoia se il sistema economico si deve sviluppare. Un presupposto, purtroppo, che fa parte dei fondamenti stessi di un triste modo di pensare il mondo. Una modalità sacrificale del pensiero. Ed è al pensiero sacrificale che si rivolge questo indice. Rapportare il numero dei morti su lavoro al livello di crescita del prodotto sociale, cioè allo sviluppo economico, significa scoprire che gli incidenti mortali in Italia sono quasi il triplo rispetto a quelli che accadono in Germania. L’indice «vittime di lavoro per unità di prodotto» ci dice allora qualcosa di significativo sull’arretratezza del sistema economico italiano, un sistema fondato sulla compressione del lavoro che genera bassi livelli di surplus e di ricchezza.
Tutto ciò racconta di un processo produttivo italiano malato, molto distante dai Paesi più avanzati. E i primi a scontare i danni di questa malattia sono proprio le lavoratrici e i lavoratori.