Dietland
di Patrizia Lessi
In un numero dedicato al cibo in tutte le sue declinazioni può essere interessante guardare a ciò che lievita in rete, con particolare attenzione all’attivismo intersezionale e ad una terminologia inedita e sempre più diffusa: fat-shaming, fat-acceptance, body positivity non hanno in sé un riferimento diretto a ciò che mangiamo, ma rimandano al complicato rapporto fra cibo e corpo che lungi dall’essere una novità è però oggi riflesso da piattaforme come Instagram in numerosissime sfumature.
Da una parte si ha il fenomeno del food porn, la pratica cioè di condividere nei post i piatti che stiamo per svuotare a casa o al ristorante condendoli con ashtag acchiappa like, dall’altra mostriamo il percorso che ci porta attraverso il cibo sano, sminuzzato, liquefatto e trasformato a raggiungere o mantenere il peso forma, o come dice soprattutto il femminismo di ultima ondata, il corpo conforme.
Perché fotografiamo ciò che mangiamo? Perché lo facciamo principalmente quando il cibo è ricco, ipercalorico, saturo di grassi, unto, debordante il piatto o protagonista succulento al suo centro? Perché ci sentiamo in dovere di proclamare nei commenti che da domani saremo a dieta, andremo avanti a sedano, è un peccato di gola, una follia, siamo caduti in tentazione è colpa delle feste, dei parenti, dello stress o dell’happy hour con gli amici? Cosa ci fa collegare la gioia per una "carbonara" al senso di colpa, le scuse pubbliche per averla mangiata? E nel caso di un piatto venuto male, perché condividiamo la torta franata, le lasagne carbonizzate, il risotto distrutto che mai verranno ingurgitati, quindi mai ci sazieranno? Cosa lega l’incremento di foto di cibo a quello di scatti di corpi sottili o spessi, lisci o segnati, con o senza filtro che polarizzano oggi sui social la discussione su vincoli estetici che sono inevitabilmente anche sociali?
Sulla conformità a canoni estetici sempre più ardui da soddisfare si sono interrogati negli anni in molti e ancora ha tanto da dire Il peso del corpo nelle cui pagine la filosofa Susan Bordo già nel 1997 analizzava il triangolo cibo-corpo-immagine scoprendone ogni spigolo, dall’ossessione per la magrezza ai disturbi alimentari fino alla vigoressia e alla pianificazione patologica di tutto ciò che riguarda l’alimentazione sana.
A distanza di venticinque anni il testo di Bordo ci pone ancora degli interrogativi divenuti più che mai attuali grazie all’amplificazione nei social di ogni singolo tema inerente il nostro rapporto con nutrimento e peso corporeo. C
Così fra food porn e trattamenti dimagranti, consigli per combattere la cellulite e guerra agli stereotipi sulla bellezza, si sono fatte largo le istanze del femminismo intersezionale contemporaneo che combatte strenuamente ogni singola azione volta a conformare i corpi verso un modello di bellezza imperativo e unico.
In questo mondo si muove Alicia “Plum” Kettle, voce narrante di Dietland, libro cult del 2015 di Sarai Walker.
Plum combatte da tutta la vita una guerra in cui amore per il cibo ed odio per il proprio corpo si alimentano reciprocamente facendo della bambina di un tempo e della donna di adesso l’eterna perdente.
In una società dove raggiungimento degli obiettivi e performatività si misurano anche nella taglia e nelle forme conformi a uno standard, le persone come lei rappresentano letteralmente l’elefante dentro una cristalleria di selfie, storie, video e tutorial accecante quanto fragile.
Nel testo si fa non a caso riferimento al passaggio di Alice in Wonderland in cui mentre sta rimpicciolendo sempre di più la protagonista si chiede se continuerà a farlo fino a consumarsi. Ed è questo che accade a Plum: l’essere debordante fuori, l’occupare più spazio degli altri, essere non tanto più grossa, ma più grande, più esposta, le fa desiderare di divenire non solo magra, ma piccola, minuscola, in modo da poter entrare in ogni singolo interstizio di conformità presente nella nostra struttura sociale. Mentre aspetta di subire una rischiosa operazione di rimpicciolimento dello stomaco Plum segue diete, sostituisce i pasti con cibo apposito, insapore, inodore, in grado di nutrire senza dare piacere. Conta le calorie, suddivide ciò che mangia in alimenti positivi, negativi e neutri, sminuzza, conserva, numera, riduce finché il corpo non reclama il piacere, il godimento dato dal nutrimento, da sapori, odori, consistenze. In questo alternare dieta e abbuffata Plum comincia però a riconoscere una delle molte forme di violenza a cui nel libro le donne sono sottoposte.
Kitty Montgomery, l’antagonista della storia, magrissima, tonicissima e in carriera sacrifica ogni cosa sull’altare del corpo in forma rimandando con orrore il confronto con quello del corpo che invecchia, tabù anche più potente nella società attuale perché ineliminabile con diete, palestra e chirurgia.
I corpi delle donne come Plum e Kitty subiscono restrizioni, vincoli, dolori con l’unico scopo di conformarsi a delle regole (o ad una idea delle regole) che le tenga al sicuro dalla grandezza, da quel pericoloso debordare oltre il limite e spingersi da sole, senza il conforto della massa, più in là.
Nella copertina del libro Plum è ritratta nell’atto di lanciare un muffin con la miccia al posto di una candela. Quella bomba di zucchero e colesterolo prêt à manger, simbolo di un bene e di un piacere effimeri e di pronto consumo può dunque trasformarsi in un’arma nelle mani di chi decida di non prestarsi più al gioco.
Spezzando il legame fra cibo, corpo e immagine Plum fa nella storia il suo percorso mettendo in luce un mondo, il nostro, che ancora per certi versi può definirsi liquido, ma in cui i nostri corpi ,che ancora reclamano nutrimento e vita, rendono friabile molto di ciò che oggi li rappresenta.