Dèi, patrie e (soprattutto) famiglie

di Marco Giovagnoli

C’è un problema di declinazione nella triade ‘Dio, Patria e Famiglia’, tanto amata da vecchi e nuovi conservatori. La forma singolare dei tre elementi è una dichiarazione di intenti, piuttosto che una eleganza stilistica, dichiara esplicitamente una ideologia – del tutto comprensibilmente, nell’ottica dei suoi sostenitori. Assodato che di dèi adorati ce ne sono molti a questo mondo, e che le patrie, piccole o grandi che siano, proliferano alle volte anche come scatole cinesi, e che nel nome dei primi e delle seconde gli esseri umani si macellano da sempre, rimane da ragionare sul terzo elemento, quello a prima vista più rassicurante, caldo e protettivo, ossia la ‘forma-famiglia’ che oggi, e in particolare nel nostro Paese, da un lato viene evocata come il fortino da difendere e il giusto assetto sociale cui ri-tendere, dall’altro suscita spesso pensose nostalgie sul bel tempo andato, perduto per definizione, quando davvero la famiglia era un qualcosa di solido e desiderabile al confronto dei tempi attuali, tempi di disfacimento morale e lassismo strutturale.

La letteratura, sovente, ci aiuta a comprendere il passato e il presente, e certo anche il futuro. C’è un passaggio nei Malavoglia di Giovanni Verga dove, nelle parole di padron ‘Ntoni, il ‘capofamiglia’, si esplicita l’idea neanche tanto antica di organizzazione familiare: “Gli uomini sono fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo”. Infatti, la sua famiglia era “disposta come le dita della mano”. Prima di tutto veniva lui, che era il dito grosso. Poi c’era suo figlio Bastiano, che nonostante fosse grande e robusto, “filava dritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avesse detto ‘soffiati il naso’ tanto che si era tolta in moglie la Longa quando gli avevano detto ‘pigliatela’”. Poi veniva la Longa, “una piccina che badava a tessere, salare le acciughe e a far figlioli, da buona massaia”. Infine, c’erano i nipoti in ordine di anzianità. È, quella descritta da Verga, la famiglia che oggi definiremmo patriarcale, ma non è tanto su questo aspetto che vogliamo soffermarci. Certo, il ruolo maschile è ben definito (siamo all’inizio della ‘modernità’ occidentale, ma l’ordine non era di sicuro specificamente occidentale), e al vertice vi era il maschio, padre e marito, “l’organo della tradizione, interprete e arbitro dei costumi”, secondo la famosa dizione di Tocqueville che, da buon liberale, propugnava l’emancipazione femminile ma sino alla soglia della creazione della famiglia; poi, osserva Tocqueville, “si può dire che proprio nella pratica dell’indipendenza essa [la donna] attinge il coraggio di sacrificarla senza lamentele e senza drammi, quando il momento è venuto”.

Dunque, tra i salotti liberali europei e il mondo dei ‘cafoni’ c’erano forti differenze prima dell’entrata della donna in famiglia, ma poi le spettavano, per salvaguardare il buon ordine sociale (e per quelli dei salotti anche il nascente capitalismo), comunque le pezze da cucire, il pesce da salare e il ruolo di fattrice. Ma anche facendo qualche passo indietro nel tempo (non tanto), nella famiglia accogliente l’aria sembrava più quella della caserma, che del dolce focolare: tra marito e moglie vi era ovviamente rigida separazione dei ruoli e addirittura separazione fisica per la maggior parte del tempo quotidiano; espressioni seicentesche ricorrenti erano ‘signor consorte” e ‘signora consorte’ (laddove non si usava la mazza nelle discussioni), il “lei” era la regola, poi mutata nel “voi” settecentesco; nei ceti inferiori la moglie dava del voi al marito, e questi dava del tu alla moglie. Per quanto riguarda i figli, l’educazione era alla sottomissione e alla deferenza, e talvolta l’abbandono precoce la regola. In linea di massima, i genitori non dovevano manifestare nei confronti dei figli sentimenti di affetto con parole e gesti, baci, vezzeggiativi. Le effusioni dei padri nei confronti dei figli erano inconcepibili, comunque più rare del mostrar loro la fibbia della cinghia. Non si mangiava assieme come nella famigliola delle merendine, ed eventualmente se il male breadwinner (il maschio che procurava il sostentamento) aveva fame, alle ultime dita della mano poco o nulla poteva restare. Il lasciar morire a volte d’inedia i figli più piccoli, gli ennesimi, non rappresentava una crudeltà fine a se stessa ma un doloroso triage per la sopravvivenza di quelli più grandi e ‘produttivi’. Anche al momento del matrimonio, soprattutto nei ceti più elevati, le decisioni erano prese dai genitori (anche dalla comunità, talvolta, per motivi di opportunità), come dice bene Verga e come molti nostri nonni si ricordano ancora. Ovviamente la società, fatta di esseri umani, non si comporta in maniera prevedibile come i metalli, per cui le cose potevano andare anche diversamente, ma è chiaro che alcuni degli stereotipi della narrazione ideologica contemporanea vanno messi quantomeno in prospettiva.

Riprendiamo un attimo Tocqueville: nel processo di emancipazione femminile, per i liberali entrava anche la loro (delle donne) liberazione sessuale (inevitabile, vista la nuova possibilità di uscire di casa e guardarsi attorno) ma questa rimaneva comunque un problema per l’ordine sociale, così che il Nostro raccomandava di non equiparare l’allegria sessuale femminile a quella maschile: la seconda (anche a famiglia già formata) ci poteva stare, la prima andava sanzionata (la certezza della paternità, i patrimoni da tramandare etc. etc.) per cui guai – lo dice il liberale – a fare leggi liberali che attenuassero le responsabilità antisociali della dissolutezza femminile. Noi Italiani lo sappiamo bene, avendo abolito il delitto d’onore nel 1981 (!) e avendo partorito geni come Pietro Germi che ha messo eternamente su film quel sentire culturale. In sociologia c’è poi la figura del padre assente, tipica della famiglia dove il maschio ha troppo da fare fuori casa per occuparsi della prole (e forse ha diverse famiglie in tal senso), oppure è scappato dalle sue responsabilità paterne abbandonando compagne e figli, oppure ancora è forzosamente assente (carcere, guerre etc.) per cui anche da questo versante i bei tempi passati stentano a palesarsi.

Altro leitmotiv della propaganda attuale: le famiglie numerose da sostenere e moltiplicare, anch’esse perse nel passaggio dalla tradizione alla modernità. Innamorati dell’Albero degli zoccoli (che comunque è un capolavoro anch’esso), i propugnatori di quest’assetto familiare – certo, ad esempio nella mezzadria era così, per ovvi motivi – dimenticano che gli studi di demografia storica hanno dimostrato come la famiglia nucleare fosse già diffusa, qua e là nel continente europeo e anche nel nostro Paese, ben prima della mannaia dell’industrializzazione e della modernità (ad esempio nel contesto bracciantile ma non solo).
E poi c’è l’attualità: la crescita spontanea ed esponenziale delle forme familiari con madri (di più) e padri (di meno) single con figli, o coppie senza figli, calo generalizzato del vincolo matrimoniale e comunque una sua dilazione nel tempo dopo la formazione della coppia, coppie omosessuali e omogenitoriali, famiglie allargate non su basi matrimoniali e/o di consanguineità (ad es. per la condivisione di spazi e/o di costi), e via allargandoci nelle casistiche.
Ma allora qual è la Famiglia invocata nella triade di cui sopra? In sociologia raccontiamo la comparsa storica (storica) della cd. famiglia parsonsiana (dal grande e conservatore sociologo statunitense Talcott Parsons, siamo nel secondo dopoguerra), che è proprio quella formata da una coppia eterosessuale, sposata, con il maschio breadwinner e la femmina ‘animale sociale’ di prossimità, dedito il primo a procacciare risorse di norma nel contesto urbano (esce di casa la mattina presto) e la seconda, nell’ambito domestico e di vicinato, dedita all’allevamento dei figli – non troppi, non siamo nella Bassa –, alla manutenzione della casa e alle relazioni col vicinato. È l’immaginario che ci è stato restituito da innumerevoli prodotti culturali yankee tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, elettrodomestici compresi per una reale liberazione femminile dalle fatiche domestiche – sempre di pertinenza femminile, comunque. In fondo Parsons lo diceva chiaramente: il ruolo della famiglia era duplice, la socializzazione primaria (il processo attraverso cui i bambini apprendono le norme culturali della società in cui nascono) e la stabilizzazione della personalità (si riferisce al ruolo svolto dalla famiglia nel fornire supporto emotivo ai suoi membri adulti) – in altri termini, crescere buoni cittadini ‘americani’ e mantenere l’ordine sociale, funzionali entrambi gli obiettivi alle migliori sorti dell’ordine liberalcapitalistico occidentale contro, in particolare, lo spettro del Socialismo. Sembrerebbe questa la Famiglia alla quale oggi si fa riferimento, anche dalle nostre latitudini, al netto dello spettro del Socialismo che in effetti è divenuto tale, in attesa di futuribili resurrezioni.

Da Parsons in poi gli approcci critici a questa visione idilliaca (e strumentale) della famiglia si sono moltiplicati – citiamo il radicalismo femminista di Heidi Hartmann, tra i tanti, contro il persistere delle disuguaglianze di genere nella famiglia e il cristallizzarsi dei ruoli e degli squilibri di potere – ma ciò che va sottolineato è che comunque di famiglia si è continuato a parlare, osservandone i mutamenti e le contorsioni nel tempo: dal sottolineare la nascita dell’amore romantico (e dunque dell’intimità) solo verso la fine del 1700, ma ancora non per tutti e ovunque; alla separazione tra sesso e riproduzione; al caos generato dal fatto che sempre più l’unione su base di scelta è fonte di libertà ma anche di tensione (ecco le combinazioni e ricombinazioni della contemporaneità); sino ad arrivare alla società liquida di Zigmunt Bauman, dove i legami (famiglia, classe, religione, matrimonio) sono allentati e possono essere sciolti in coerenza con le mutate circostanze (mutamenti costanti e assenza di legami durevoli). Nell’individualismo del presente la relazione tra due persone comporta vantaggi e svantaggi, da cui desideri conflittuali verso direzioni differenti, desiderio di libertà (legami allentati) da un lato e maggiore sicurezza (rafforzamento dei legami tra partner) dall’altro. L’oscillazione tra libertà e sicurezza significa in una relazione goderne le gioie e non ingoiare i ‘bocconi amari’. Il risultato è una società di ‘coppie semilibere’ impegnate in ‘relazioni tascabili’.

In sintesi, la Famiglia è morta, ma meglio è dire che non sia mai esistita, mentre invece le famiglie sono vive e prosperano, nella loro diversità ed evoluzione, con buona pace di ministri, prelati e catoni vari. La questione, come si sarà intuito, non è puramente definitoria: se si continua pervicacemente ad immaginare la Famiglia e a pensare progetti (per lo più inefficaci) a suo sostegno, si perde di vista il mondo reale, l’obiettivo concreto, che è invece quello di sostenere sì la famiglia, ma nella sua pluriformità – pluriformità che garantisce una piena e proficua persistenza della Società.


Le riflessioni nell’intervento nascono da molteplici fonti, ma per non appesantire il tutto segnaliamo solo alcune letture o visioni:

Z. Bauman, Amore liquido, Laterza, Roma-Bari 2006
A. de Tocqueville, La Democrazia in America, Rizzoli, Mi 1999
G. Verga, I Malavoglia, Einaudi, To 2014

T. Parsons è un po’ complesso da leggere (lo dicono anche alcuni suoi valenti colleghi), rimandiamo a manuali di sociologia o ottimi esegeti anche italiani. Anche su Heidi Hartmann, la cui bibliografia è disponibile in lingua, si rimanda ai numerosi articoli e saggi in particolare sul femminismo marxista. Alcune delle riflessioni finali derivano dai lavori sul tema di grandi figure della sociologia contemporanea come Anthony Giddens (il riferimento all’amore romantico) o Ulrich Beck (il caos), per le quali anche si rimanda ai numerosi lavori tradotti in italiano. Abbiamo attinto infine a qualche riflessione di un altro grande sociologo contemporaneo, Manuel Castells. Per i dati sulle forme-famiglia oggi in Italia c’è ovviamente l’ISTAT.

Il film diretto da Pietro Germi è Divorzio all’italiana, del 1961; l’Albero degli zoccoli è un film di Ermanno Olmi del 1976