Resistere nell'epoca della crisi climatica
di Leonardo Lovati
Resistere oggi significa valorizzare la fragilità dei nostri legami con le persone e gli ambienti che viviamo. L’unico merito che si può attribuire alla crisi climatica è quello di aver riposizionato l’ego umano, ridando la consapevolezza di quanto sia fragile e interdipendente la sua esistenza. Non era così scontato fino a qualche anno fa che la “natura” si sarebbe ripresa quello che le abbiamo tolto a colpi di catastrofi naturali. Pensavamo però che la fine dell’essere umano fosse stata per mano dell’essere umano stesso, e in questo avevamo più o meno ragione. Modificando così tanto gli equilibri terrestri, l’essere umano è il colpevole di questa crisi mastodontica, ma allo stesso tempo non sarà stata un’azione diretta di qualche Capo di Stato, come potrebbe essere il lancio di una atomica (situazione, comunque, non da escludere a priori data l’aria che tira), a creare i maggiori danni, ma il mondo naturale che pensavamo di controllare. Questa riacquisizione del potere del non umano è una fonte di angoscia molto profonda perché archetipica.
È la stessa sensazione di perdersi nella foresta Amazzonica o di esplorare le profondità del mare, dove il pericolo è sempre latente.
Ci ritroviamo quindi in una posizione in cui il nostro volere non può essere scollegato dagli oggetti che ci circondano, ci rendiamo conto che non siamo più noi a plasmarli ma sono loro a sostenere la nostra visione del mondo.
Oltre all’ontologia però, e questa è la parte più importante per chi non si può permettere di vivere nella Foresta Nera mentre fuori c’è il disastro, dobbiamo renderci conto che con l’aumentare delle catastrofi climatiche assisteremo a un aumento di tutti gli altri fenomeni che si accompagnano alle crisi: povertà, morti, aumento delle migrazioni, guerre e carestie.
Stiamo per vivere un periodo di disperazione che in Europa non vedevamo dalla Seconda Guerra Mondiale, e che probabilmente sarà peggio. Vedremo perdere il velo di democrazia delle nostre civiltà occidentali, quando ci saranno da gestire flussi migratori interni così cospicui da non riempire nemmeno tutti i Centri di Rimpatrio di un Paese, quando ci sarà da fare la guerra per l’acqua o per il grano. Dovremo incominciare a ragionare allora come quelle persone che abbiamo colonizzato per capire effettivamente come resistere e cosa significa resistenza.
Riposizionamento ancora del nostro ruolo nel mondo: l’europeo, e la sua cultura, perde qualsiasi credibilità, se riusciamo a leggere la storia di quello che ci ha portato fino a qui. In numerosi episodi di resistenza delle popolazioni colonizzate vediamo come quello per cui stavano combattendo era qualcosa di molto vitale. La delocalizzazione forzata o la distruzione dei loro territori sacri sono violenze così atroci, e legate alla loro cultura, che non si sarebbero mosse e mossi con le loro gambe per lasciare distruggere quella terra.
Lo stiamo vedendo anche ora con il genocidio in Palestina: quelle persone non fuggiranno per essere strappate da tutto ciò a cui tengono. Alcuni popoli amazzonici parlano di un legame a doppio senso con il territorio sacro: portano qualcosa in loro e qualcosa di loro è rimasta su quella terra.
C’è una connessione molto profonda ai valori che vivono nelle comunità, valori che formano profondamente la loro personalità e modificano il loro agire nel senso di appartenenza, perché sono i legami a mantenere la vita e la loro storia.
Le grandi mobilitazioni che ci sono state contro il Dakota Access Pipeline, oleodotto che avrebbe tagliato obliquamente in due parti il Nord e il Sud Dakota, hanno radunato migliaia di persone da tutto il mondo per protestare a fianco delle sioux, e hanno sputato sangue per non farlo costruire, attaccate dalle milizie private e dai cani.
Penso che quello sia un episodio di resistenza a cui guardare per capire di che tipo di relazioni stiamo parlando. Era a rischio la loro stessa vita e lo sapevano. Sapevano quanto era fragile la loro esistenza lì, e allora hanno deciso di difenderla. La nostra esistenza purtroppo è ora ugualmente fragile, e rischiamo davvero che ci venga tolto qualsiasi legame con il luogo in cui viviamo, e perciò la nostra vita.
Resistere significa per noi quindi ammettere questa fragilità, rendersi conto che le cose che perdiamo ci influenzano profondamente, e quindi agire per riportare quei valori che si sono persi.
Dall’11 maggio saremo a Roma per riportare questi valori, per riconnetterci alla fragilità della nostra esistenza, e resistere. Ti invito a esserci per fare lo stesso.