Cosa c'è tra di noi?

di Maddalena Bergamin

 
Che cosa c’è tra di noi? Questa è la domanda in lettere al neon che da diversi mesi viene posta a chiunque passi davanti al Centre Pompidou, il più importante museo di arte moderna e contemporanea di Parigi. Si tratta dell’installazione dell’artista inglese Tim Etchells (1962).
Una domanda particolarmente diretta, che quasi ci mette a disagio, quando ce la vediamo di fronte e siamo in compagnia di qualcuno.
Passato l’imbarazzo, ricorriamo, nella nostra mente, a risposte il più possibile credibili: tra di noi c’è amicizia, una relazione amorosa, c’è antipatia o antipatia, tra di noi c’è una storia travagliata, svariati affetti. Tuttavia, credo che l’installazione di Etchells faccia appello a una dimensione diversa da quella del tempo, convocando piuttosto il concetto di spazio. Il suo “tra di noi” significa letteralmente “in mezzo a noi”, nello spazio d’aria (reale o mediatico che sia) che separa due o più individui incastonati nelle proprie rispettive realtà. E, tra di noi, come cantava Mina nel 1972, ci sono solo parole. Persino quando non ci sono, il loro posto è occupato dal silenzio, che è pur sempre un’assenza di parole.
Possiamo dedurne che i rapporti e le relazioni della nostra vita, sia essa pubblica, privata o raccolta nello spazio più stretto dell’intimità, è fondata essenzialmente sulle parole.
Pensiamoci: qualsiasi propaganda, qualsiasi potere, qualsiasi intervento volto al progresso, qualsiasi iniziativa di solidarietà, qualsiasi corteggiamento… tutto questo è determinato, in principio, dalle parole che scegliamo, inconsciamente, per descrivere l’azione che avevamo in mente. In fin dei conti, non creiamo niente senza averlo composto, prima, in parole. E tuttavia, vedendo la domanda di Etchells, cerchiamo ostinatamente di trovare un contenuto alle nostre relazioni, come se credessimo che esiste una realtà indipendente dal linguaggio. Senza “purtroppo” e senza “per fortuna”, la nostra natura è irrimediabilmente legata al nostro parlare.
Allora dire parole, e come dirle, non risponde più a una questione di forma, ma a una questione di sostanza. Se fossimo consapevoli del fatto che la forma è inevitabilmente più importante del contenuto, porremmo maggiore attenzione ai nostri interventi sulla realtà. Non si potrebbe più dire “mi sono espresso male”, “non volevo essere razzista, maschilista, omofobo”, e che dir si voglia. Ma, cosa forse ancora più importante, colui che ascolta non accoglierebbe più tali affermazioni con l’inerzia dell’abitudine. Esprimersi male è fare del male, la parola può essere una sberla e una manganellata. Ma certe parole sono invece carezze, che ci danno la forza di vivere.