Mettiamoci a nudo

Il corpo femminile simbolo di libertà

                                                              di Patrizia Lessi

Uno degli aspetti più inediti dell'ultima ondata del femminismo, quella che ha fatto dell'intersezionalità il proprio tratto distintivo e la prima ad aver avuto ampia diffusione in rete, è la rinarrazione dell'immagine del corpo femminile. Non molto tempo fa Instagram è stata la sede di una campagna di sensibilizzazione avente per tema la nudità, totale o parziale, esposta per veicolare un messaggio sociale che nulla avesse a che vedere con l'oggettivazione del corpo delle donne alla quale per decenni siamo stati abituati. Alla base della campagna c’era l’idea, che ne è stata poi lo slogan, del corpo politico, perché politico è l’uso che ne è stato fatto per discriminare o mettere a tacere determinati soggetti sociali. Così il corpo della donna è stato per molto tempo interprete di messaggi ben precisi, orientati a incasellarne il più possibile il ruolo nella società. Il corpo nudo ed eroticizzato è stato lungamente usato per invogliare il consumatore a comprare determinati prodotti (dalla colla isolante allo pneumatico dell’auto) o esposto giovane, tonico e magro nelle campagne di moda o nelle foto di calendari e shooting di celebri autori. Al reggiseno bruciato in piazza negli anni ’70 si è sostituito il maglioncino della ragazza o della donna alle quali è stato insegnato che chi si scopre non ha altro da offrire. La donna colta, intelligente, seria non ha bisogno di esibire alcunché.  In pratica perché la mente emerga, il corpo deve immergersi sotto qualcosa che ne celi la vista. È pensando a questo paradigma che Maria Grazia Chiuri, Direttore creativo di Dior, ha disegnato l’abito “nudo” indossato da Chiara Ferragni in occasione della serata di apertura dell’ultimo Festival di Sanremo. Proprio dal suo profilo Instagram Chiuri spiega l’idea alla base di quella creazione: “La nudità è un simbolo molto forte sia di forza che di vulnerabilità. Vestire una donna con la propria nudità significa che non ha nulla da nascondere, che è inviolabile, che sta investendo il suo corpo con un significato che va oltre il desiderio maschile.”
La nudità  diventa così l’interprete di un messaggio di testa condiviso per celebrare l’autonomia della donna da ogni tentativo di rendere il suo corpo un oggetto alla mercè di desideri non suoi. Questa scelta ha origine proprio da momenti come quello citato in apertura, la diffusione su Instagram di foto in cui il corpo di molte attiviste intersezionali ha dato voce all’esigenza di non volersi più sentire vulnerabili. I loro corpi esposti hanno messo a nudo le grandi discriminazioni ancora ben radicate nella società odierna: sessismo, razzismo, abilismo, ageismo, grassofobia. A questo si è aggiunto un ulteriore elemento:
La riappropriazione dell’amore per il proprio corpo da parte di donne che hanno subito abusi e violenze.
Nel 2013 in  Surviving Sexual Violence,  Liz Kelly, direttrice dell'Unità di studi sull'abuso di bambini e donne, alla London Metropolitan University, sottolineava l’importanza
  per tutte le donne di riconoscere gli episodi di violenza sessuale nelle loro vite e di vedere se stesse e le altre donne come sopravvissute piuttosto che vittime. Kelly prendeva di mira non solo tutti gli atti che fanno parte della sfera dell’abuso sessuale e che tradizionalmente non vengono riconosciuti come tali, ma anche la narrazione fatta della violenza di genere ai danni delle stesse donne che la subiscono. Le pubblicità progresso o i servizi giornalistici in cui il corpo della donna è mostrato come il simbolo di una violazione che l’avrebbe marchiata per sempre hanno contribuito per Kelly a ripiegare la donna nel ruolo di vittima da proteggere, di corpo che, forse perché troppo esposto, portato in giro di notte o in contesti ambigui, le ha causato umiliazione e dolore. Contro questo tipo di narrazione ritenuta profondamente tossica si sono gradualmente mosse molte femministe radicali e intersezionali che nelle loro biografie social hanno cominciato a inserire  survivor come tratto distintivo della loro storia. Non vittime, ma sopravvissute, che come chi sopravvive portano con sé le cicatrici invisibili ma indelebili dell’ abuso e vanno comunque avanti perché loro non sono il loro abuso.
I corpi esposti su Instagram hanno indicato esattamente questo: la volontà di fare del proprio corpo ciò che si vuole senza la paura che lo sguardo altrui cerchi di appropriarsene attraverso la sua eroticizzazione.
L’idea è stata declinata in molti modi, alcuni dei quali hanno avuto per protagoniste donne giovani, belle, orgogliose di mostrarsi.
Per questo motivo alcuni mesi fa nel Chiostro di Sant’Antimo ha avuto luogo una mostra fotografica avente per protagoniste alcune donne caraibiche di età compresa fra i venti e i sessant'anni. Parte della rassegna è stata dedicata ad alcune ragazze durante il loro percorso di riappropriazione dell'amore di sé e del loro corpo a seguito di abusi subiti in famiglia o per strada (la casistica a Trinidad conta un impressionante numero di violenze contro donne di ogni età ed estrazione sociale). Queste ragazze sono indubbiamente belle e indubbiamente con poco addosso. In costume o abitini ini mostrano la forza e l’armonia che con sguardo pregiudizievole e razzista noi abbiamo classificato nei secoli come tette e culi neri, o delle negre, facendo delle loro parti corporee il tutto che le identificava. Alcuni dei soggetti ritratti studiano, aspirano a diventare modelle, a fare del loro corpo la chiave per emanciparsi dalla povertà e dalla grettezza che ne hanno fatto a lungo delle vittime. Una di loro ha parlato in diretta streaming spiegando come si muovono le associazioni femministe e tutte le realtà in difesa di chi è discriminato in posti complessi come i Caraibi. La mostra ha avuto successo, è stata compresa ed ha avuto i suoi detrattori, ma nell’essere messa in piedi non è andata incontro a nessun tipo di censura. Sorprende dunque che l'autore, contattato per ripetere ed ampliare con foto di soggetti provenienti da altri paesi l’esposizione, abbia dovuto rinunciare all’impresa dopo il confronto con alcuni membri della Commissione Pari Opportunità e l’Assessore Ambiente-Sanità-Pari Opportunità del Comune di Piombino.  Alle ragioni delle fotografie date in visione dopo l’approvazione del progetto è stato risposto che quei corpi in studio o sulla spiaggia, belli e svestiti, non possono rappresentare in occasione dell’otto marzo la vera essenza e la forza delle donne. Sarebbero altri i contesti in cui questa andrebbe ritratta e celebrata: i luoghi di lavoro, i capezzali dei figli malati in ospedale, le baracche o i rifugi in cui le donne affrontano quotidianamente la mancanza di mezzi e libertà. I corpi mostrati nel loro fulgore e nella loro integrità non sono consoni alle tematiche da trattare in occasione della Giornata Internazionale della Donna. Così, a parere di alcuni membri e dell’assessore, per poter essere esposti gli scatti avrebbero dovuto subire almeno una selezione preventiva in modo da scartare i soggetti o i contesti meno significativi. Colpisce il fatto che l’autore abbia avuto meno censura dalla Chiesa.
Qui non è in discussione il diritto di una commissione di scegliere una narrazione (non solo fotografica) in linea con le proprie idee su parità e diritti. Non si discute neanche il sacrosanto diritto di esprimere un’opinione sulla bellezza o l’opportunità di un’opera, di qualsiasi genere essa sia.
Il punto è quanto serva oggi parlare di forza delle donne se questa può essere mostrata solo se associata a sofferenza o fatica. Se un corpo seminudo e bello o un sorriso che sono il fondamento del concetto di surviving, mettano in dubbio la realtà di una violenza che per essere creduta deve farsi esclusivamente ritratto del dolore, di donne autonome, forti, normali, purché eternamente vulnerabili
È un punto di vista fra i tanti e da rispettare quanto gli altri. Ognuno saprà giudicare con occhi propri.