La (difficile) resistenza nella società dei consumi di massa
di Marco Giovagnoli
L’aforisma ben noto di Oscar Wilde sull’idea di poter resistere a tutto tranne che alle tentazioni evoca, con felice intuizione, la complessa questione dell’attrattività intrinseca della società dei consumi di massa. Perché proprio sulla desiderabilità del consumo in quanto tale si è costruita una prospettiva difficilmente aggirabile da parte di un sistema di mercato che ha la crescita – della produzione, del fatturato, dei profitti – al centro della propria ragion d’essere. Una crescita fondata sull’attrattività dei prodotti, sulla loro piacevolezza, sulla trasformazione dei desideri in bisogni. Anche il socialismo reale era ossessionato dalla crescita, ma non aveva affatto capito il suo lato sexy: non di solo pane si vive, e ha fatto mancare anche quello, alla fine. Il capitalismo no: ha saputo vendere l’utile e, subito dopo, l’inutile, trasfigurandone lo status; Albert Hirschman lo aveva ben capito nell’applicare il suo straordinario schema exit, voice and loyalty al crollo subitaneo del sistema sovietico e dei suoi satelliti; voglia di libertà, sì, ma anche di entrare al Kaufhaus des Westensdi Berlino Ovest e immaginare (in un primo momento solo immaginare) di scivolare tra i piani di quel magnifico edificio traboccanti di beni più o meno necessari, di vestiti di lusso e di grassi salsicciotti, di ammennicoli vari e di bella gente del ‘mondo libero’. La spallata al Muro ha aperto una breccia dalla quale si accedeva a ciò che il triste socialismo reale non riusciva più a nascondere ai suoi cittadini impegnati nella fila per entrare in negozi semivuoti, ossia la scintillante società dei consumi di massa. Come dar torto a loro, ed anche a tutti gli altri abitanti del pianeta ai quali l’Occidente capitalista aveva indicato la stella polare dello sviluppo, quando il modello era quello dei vari boom economici, della motorizzazione di massa (delle BMW però, non delle Trabant), della elettrodomesticazione delle case, dell’ingresso nel turismo di massa (sì, alla conquista dei paradisi del jet set, ora disponibili a prezzi stracciati anche per il travet più periferico), dei mall dove tutto era a portata di mano e di portafoglio (guidati dall’oracolo moderno, la pubblicità onnipervasiva), dell’usa-e-getta come metafora del lusso di potersi permettere lo spreco, della salute e della felicità istantanea sempre più per via chimica, della crapula come non ci fosse un domani, della morte dell’idea stessa di limite, oramai associata al pensiero di individui tristi, torvi, rancorosi e alla fin fine noiosi?
La società dei consumi di massa è la società del piacere: George Ritzer l’ha chiamata la predominanza del nulla sul qualcosa, dove il nulla non è affatto brutto, anzi, così come i nonluoghi di Marc Augé non sono i luoghi brutti, anzi, sono gli spazi dei flussi, dell’iperconsumo, della velocità – altro mito fondante quest’ultimo della contemporaneità consumistica. I desideri/bisogni sono spesso associati all’età infantile, dove il confine tra i due non è sempre definito e il piacere diventa necessità: il mercato lo ha ben capito ed ha aperto la nuova frontiera dell’adultescenza, come abbiamo scritto tempo fa su Nautilus ricordando il lavoro di Barber: spostare sempre più avanti nel tempo della vita la (comprensibile) spensieratezza infantile e adolescenziale vogliosa di tutto e che tutto vuol ottenere (e che non ha l’obbligo, ovviamente, di interrogarsi sui mezzi per ottenere ciò che si vuole) e arretrare verso i più piccoli (adultizzandoli) le esigenze degli adulti stessi, con la medesima brama.
Per gli uni e per gli altri, il consumo diventa il fine e il piazzista capitalista ha già pronto il banco vendita. “Le speranze diventano aspettative e i desideri diventano rivendicazioni” ricorda il Maestro Illich: quando è successo che il desiderio di comunicare (o la speranza di avere qualcuno con cui comunicare) è diventato il diritto al cellulare di ultima generazione, con la relativa certezza di obsolescenza entro pochi mesi? La macchina del consumo ha intercettato un istinto diremmo basico (e piacevole) di relazione e lo ha trasformato in un perfetto meccanismo del produci e consuma, apparentemente fondato sull’infinita riproducibilità dello stesso; ma del resto Ulrich Beck lo aveva fatto notare: la seconda modernità radicalizzale tendenze della prima e con esse porta quel ‘progresso’ – qualunque cosa si intenda con questo termine – nell’area del rischio e dunque il comfort conquistato può diventare il nostro peggior nemico. Non perché lo si percepisca come tale – anzi, il contrario – ma perché usura il nostro pianeta sgretolando progressivamente l’idea di limite senza che quasi nessuno, ed in primo luogo i suoi maggiori beneficiari e la pletora globale degli aspiranti tali, comprenda la pericolosità della sua scomparsa dal nostro orizzonte delle opportunità. L’imperativo della contemporaneità è il no limits.
Eppure, il consumo (una delle sue etimologie è drammaticamente chiara: prendere, togliere interamente, ossia distruggere) chiama ad un esercizio di autoriflessione: è inevitabile, nello svolgersi della vita che si nutre dell’altro da sé per mantenersi, ma autofago, se perde di vista la soglia oltre la quale si ritorce contro la vita stessa, se non si cura della ri-generazione, della ri-sorgenza. Come interpretare altrimenti l’inazione contro il cambiamento climatico, in nome deldiritto alla crescita (anche nella variante truffaldina del diritto allo sviluppo)? Come concepire il depauperamento degli elementi vitali – aria, acqua, suolo – nel nome della produzione di sempre maggiori quantitativi di merci, di abitati, di ambienti artificiali? Come spiegare l’usura dei paesaggi, degli esseri umani, del resto del vivente sull’altare degli idoli del profitto, della velocità, della bulimia alimentare?
La resistenza all’epoca del trionfo del consumo e dell’iperconsumo come stile di vita, realizzazione del sé, mercificazione dell’esistente e rappresentazione pornografica del bisogno/diritto al piacere nella sua declinazione solipsistica è una resistenza difficile, complessa e anche per molti versi ambigua, perché il capolavoro del progetto mercatistico è stato quello di sostituire al ‘penso dunque sono’ un più desiderabile e desiderato ‘consumo, dunque sono’, in cui tutti noi siamo più o meno coinvolti. Come Walt Kelly fece dire al suo Pogo in occasione del primo Earth Day – il 22 aprile del 1970 -, ‘We have met the enemy, and he is us’. Ecco perché questa resistenza è difficile ma, ovviamente come la Storia dimostra, talvolta anche inevitabile.
Abbiamo citato:
M. Augé, Nonluoghi, Elèuthera 2018
B. Barber, Consumati, Einaudi 2010
U. Beck, La società del rischio, Carocci 2013
A. O. Hirschman, Lealtà, defezione, protesta, Il Mulino 2017
W. Kelly, Pogo: We have met the enemy and he is us, Simon & Schuster 1987
I. Illich, Bisogni in W. Sachs (a cura di), Dizionario dello sviluppo, Castelvecchi 2022
G. Ritzer, La globalizzazione del nulla, Slow Food Ed. 2005
O. Wilde, Aforismi, Dalai Ed. 2006