Confini di mare e di terra. La via dei corridoi umanitari e le altre scelte “possibili”
Il concetto di confine viene generalmente utilizzato per distinguere il dentro dal fuori, rompendo la continuità estensiva della superficie (Irti, 2004; Cacciari, 2000). Esso crea una terra non comune e rende, così, possibile l’esclusione, attraverso la separazione tra chi risiede al di qua e chi invece si trova al di là del limite tracciato.
Ora, se in un mondo accelerato e globalizzato, gli scambi e i meccanismi del profitto di stampo capitalistico hanno, di fatto, prodotto un superamento di certe distinzioni, come quella tra cittadini e stranieri, quest’ultima differenza torna prepotentemente ad affacciarsi sulla scena ogniqualvolta si verificano le c.d. tragedie del mare, alle quali rischiamo di essere ormai tragicamente assuefatti.
L’ultima, in ordine di clamore, ossia il naufragio del peschereccio carico di migranti a Cutro, in provincia di Crotone, ha riaperto il dibattito, dai toni sovente goffi, o amaramente grotteschi, sul cosa fare per evitare che si perpetuino nel tempo simili orrori. Tra le soluzioni proposte, e caldeggiate anche dall’attuale governo, vi è l’opzione dei corridoi umanitari, programmi speciali di trasferimento in Italia e in altri paesi europei di richiedenti asilo e rifugiati in particolari condizioni di vulnerabilità, organizzati in collaborazione con lo Stato da Organizzazioni non governative e associazioni del terzo settore.
Alla base di queste esperienze vi sono, sul piano giuridico, due Protocolli di intesa siglati tra il Ministero dell’interno ed il Ministero degli affari esteri da un lato ed alcuni enti ed associazioni di tipo religioso dall’altro. Il primo è stato firmato il 15 dicembre 2015 con la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese evangeliche e la Tavola valdese (esteso poi nel 2017 per il biennio 2018-2019), mentre il secondo è stato firmato il 12 gennaio 2017 con la Conferenza episcopale e la Comunità di Sant’Egidio. In entrambi si stabilisce l’ingresso protetto in Italia di profughi, selezionati, in virtù delle loro condizioni di vulnerabilità, dagli enti promotori nei luoghi di partenza. Tali enti si fanno altresì carico del trasferimento in Italia, dell’accoglienza nonché del finanziamento del progetto. La base normativa dei Protocolli è costituita dall’art. 25 del Regolamento (CE) n. 810/2009, nel quale si prevede la possibilità di rilasciare visti a territorialità limitata «per motivi umanitari o di interesse nazionale o in virtù di obblighi internazionali» in deroga al principio dell’adempimento alle condizioni di ingresso di cui all’art. 5, par. 1 lett. a), c), d) ed e) del Codice frontiere Schengen.
I protocolli hanno permesso ai rifugiati di entrare nel Paese in maniera sicura, con voli di linea regolari e non a bordo di imbarcazioni di fortuna nelle mani di trafficanti di esseri umani, rappresentando pertanto un canale di accesso, di inserimento e di assistenza sul territorio di tipo protetto.
Dopo il 2017, ne sono stati siglati altri, come quello che ha avviato un processo di accoglienza per i migranti provenienti dal Sudan, Somalia ed Eritrea, del novembre 2018, tramite Sant’Egidio, Caritas Ambrosiana, Fondazione Migrantes e Cei.
Sebbene si tratti di esperienze di successo, è possibile tuttavia identificare facilmente i limiti di tali pratiche. Innanzitutto, questi meccanismi si fondano sul ruolo di primo piano svolto dalla società civile, mentre la gestione dei fenomeni migratori – con l’implementazione di vie legali di arrivo e integrazione – dovrebbe essere una questione eminentemente pubblica. Inoltre, simili iniziative, anche alla luce dei ridotti numeri di persone che riescono a coinvolgere, non possono che considerarsi complementari a soluzioni generali strutturali. Da questo punto di vista è stato osservato che i corridoi umanitari dovrebbero essere letti piuttosto come azioni di advocacy volte a stimolare gli Stati ad ampliare le modalità di ingresso legale all’interno dei loro confini.
Nel dicembre 2019, invero, è stato presentato un progetto di corridoio umanitario speciale finalizzato proprio a trasformare la pratica in una policy organica, sotto l’egida delle istituzioni europee, coinvolgendo in tal modo anche gli altri Stati membri. Nella proposta, i Corridoi Umanitari Europei venivano, peraltro, delineati come addizionali e complementari ai programmi nazionali di ingresso, ovvero come non sostituivi rispetto agli impegni assunti dagli Stati in materia di protezione internazionale.
Il nodo da sciogliere rimane, a ben vedere, la capacità di favorire la c.d. immigrazione regolare, considerata la pericolosità delle rotte irregolari.
Ma in mare, dove le frontiere divengono liquide, liquido appare anche il confine tra regolarità e irregolarità, soprattutto quando la necessità di far valere questa distinzione si scontra con l’esigenza di salvare vite e “restare umani”.
Eppure, la legislazione italiana continua a essere molto rigida.
Le regole per entrare legalmente in Italia sono riunite all’interno del “Testo unico sull’immigrazione”, entrato in vigore nel 1998 e successivamente più volte modificato, come nel 2002, con la legge n. 189, meglio nota come legge Bossi-Fini, che lega sostanzialmente l’ingresso regolare dello straniero al possesso di un contratto di lavoro (esclusi i casi di visto turistico).
Con riferimento ai soggiorni per lavoro, in particolare, l’arrivo in Italia dei migranti è regolato dal governo sulla base di quote di ingresso annuali, stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, denominato “Decreto flussi”. Tra le modifiche valutate dal governo vi è l’ipotesi di ampliare e rendere più flessibile questo strumento.
Le attuali strettoie della normativa in materia di immigrazione, infatti, sembrano costituire un ostacolo anche rispetto alle richieste del mondo produttivo, che risultano non adeguatamente soddisfatte, a fronte della pesante crisi demografica. Come emerso nell’intervista fatta alla professoressa Chiara Daniela Pronzato, pubblicata sul numero 16 di Nautilus, sono molti gli studi che dimostrano come i benefici dell’immigrazione siano, in tema di occupazione, superiori ai costi: “Le ricerche, inoltre, mettono in evidenza che dove ci sono più immigrati c’è più lavoro. Non si tratta di una correlazione bensì di una causalità: non è il lavoro che crea le condizioni per attrarre maggiore presenza straniera ma il contrario. Dove ci sono più immigrati il nativo italiano lavora di più e guadagna di più, perché la presenza di persone disposte a lavorare facilita la costruzione di un ecosistema favorevole per tutti. Non c’è concorrenza tra italiani e stranieri”.
E allora che cosa occorre fare? Sicurezza e contenimento evidentemente non bastano, come pure la preziosa, ma pur sempre inevitabilmente insufficiente, solidarietà delle reti del terzo settore impegnate nei progetti dei corridoi umanitari (che potrebbero peraltro essere estesi ai c.d. migranti economici e ambientali).
Tra le proposte avanzate vi è ad esempio quella di introdurre permessi di soggiorno temporanei per la ricerca di lavoro e di ripristinare sistema dello sponsor, originariamente previsto dal Testo unico sull’immigrazione. Ma si ragiona anche sulla necessità, sempre più evidente, di riformare la legislazione sulla cittadinanza col superamento del criterio dello ius sanguinis. Insomma, il tema è complesso e, per quanto contenitori giuridici e frontiere possano servire a delimitarne alcuni “confini”, l’ampiezza delle questioni lambite non può che ispirare l’avvio di un ripensamento sistematico non solo delle regole ma anche dei linguaggi –come osserva Bontempelli “è ancora «immigrato» un individuo che risiede stabilmente in Italia da due o tre decenni?” – con i quali lo si affronta.