Noi e gli Altri. 

I confini alimentari tra storia e mito 

di Stefano d'Atri

 
«Detesto che ci si ordini di aver lo spirito sulle nuvole
mentre abbiamo il corpo a tavola».
Montaigne, Saggi

«Dimmi quel che mangi e ti dirò ciò che sei». O, se preferite, «l’essere umano è quel che mangia».  Due aforismi, che già nella prima metà del’800 riassumevano il ruolo culturale e sociale del cibo: le pietanze che mangiamo (e come le mangiamo) rivelano non solo gusto e costumi, ma anche – e soprattutto - indicano status, potere e gerarchie (Porciani). Rappresentano una linea di demarcazione non solo tra classi sociali ma anche tra cultura urbana e quella rurale (Grieco).
E quindi tra tutti i confini - naturali, politici e culturali – esistenti, quello creato dal cibo è uno dei più interessanti perché è quello che li riunisce (riassume?) tutti.
All’inizio è stata la religione. Se tutte le tre religioni monoteiste prevedono divieti alimentari, solo l’ebraismo e l’islam classificano gli alimenti in base a un valore oggettivo, distinguendoli secondo il paradigma della “purezza” (o viceversa della “impurità”) o del “lecito” opposto al “proibito”. Il cristianesimo, invece, elimina le scelte dietetiche fondate sulla “purezza” degli alimenti (Montanari) ma introduce la contrapposizione tra grasso e magro (e/o tra digiuno e astinenza), un confine che in età moderna si sposterà in avanti, verso un vero e proprio ammorbidimento.
Senza dimenticare, però, che grasso e magro “opponevano i propri confini l’uno all’altro” anche in base a precisi consumi di vivande, come ci ricorda Nino Leone per la Napoli della seconda metà del XVII secolo (ma direi non solo!).
Un confine che non ha a che fare solo con l’eccesso di cibo. Perché, se normalmente l’eccesso è stato  declinato in senso quantitativo, in realtà, non sarà sempre così: il peccato, infatti, non risiederà tanto nel mangiare troppo, quanto, piuttosto, nel provare piacere nel farlo. E, se la cucina – ovvero l’elaborazione del cibo – distingue gli uomini dagli animali, ecco allora che non è solo una questione di quantità quanto, piuttosto, di qualità, ovvero di eccesso di elaborazione (Campanini).  Non a caso, saranno i Protestanti che al digiuno cattolico visto come superficiale e ipocrita, opporranno una tavola sobria, senza eccessi (Quellier).
In realtà, non c’è dubbio che i divieti alimentari permettono soprattutto di costruire, a partire dall’infanzia – e poi di mantenere quotidianamente – l’identità della comunità e di distinguersi dall’Altro: come ci ricorda Norbert Elias, è attraverso il cibo che si cristallizzino le opposizioni tra noi e gli altri. E, alla fine, nell’Europa di età moderna la regola generale sembra essere stata piuttosto quella di una tavola che rispetta il rango sociale (Quellier)
Ecco comparire, allora, quello che per molto tempo sarà il vero, unico confine alimentare. Ovvero quello sociale. Come dimostra, ad esempio, la modalità in cui si esprime l’accresciuto consumo di carne. A partire dal XVI secolo, infatti, la frontiera fondamentale non passerà più tra gli aristocratici mangiatori di selvaggina e i “borghesi” mangiatori di carne “di macelleria”, ma tra le èlites che mangiano carne di buona qualità e il popolo, a cui si lascia quella di qualità inferiore.
L’opposizione, il confine, tra quantità e qualità sarà ora declinato in maniera diversa, rimandando alla trasformazione delle relazioni sociali, che vedranno le élites staccarsi sempre più dal popolo (Flandrin). Non a caso nel XVII secolo si assisterà al lento ma inesorabile tramonto del mito del Paese della Cuccagna: da dirompente utopia sociale a “narcotizzante rifugio per poltroni” e/o innocuo divertimento per buongustai amanti della buona cucina (Camporesi).
Ma i confini sono fatti per essere cambiati. O superati. Allora, se fino al XVIII secolo i banchetti avevano rappresentato il confine tra chi aveva denaro, potere (o entrambi) e chi ne era privo, nel lungo Ottocento ecco che assistiamo ad un “cambiamento delle regole del gioco”: il cibo ora diviene a tutti gli effetti un segno di appartenenza in rapporto al nuovo concetto di nazione nato con le rivoluzioni (Porciani).
Il cibo diventa, in altre parole, un costruttore d’identità. A volte anche in maniera superficiale, quasi folkloristica. Ma con una caratteristica comune, ovvero la permanenza delle identità locali e regionali dentro i confini nazionali: le specificità gastronomiche regionali sono state percepite – e lo sono ancora - come “tasselli cruciali per la costruzione di un immaginario nazionale”. 


------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Piccola bibliografia di riferimento
A. Campanini, I volti della cucina. Dispute antiche e moderne tra arte e natura, Roma 2021
P. Camporesi, Il paese della fame, Bologna 1985
J.-L. Flandrin, La distinzione attraverso il gusto, in "La vita privata. Dal Rinascimento
all'Illuminismo" a cura di Philippe Ariès – George Duby, Milano 1993, pp. 205-240
A. J. Grieco, Food, social politics and the order of nature in Renaissance Italy, Firenze 2019
N. Leone, La vita quotidiana a Napoli ai tempi di Masaniello, Milano 1998
M. Montanari, Mangiare da cristiani. Diete, digiuni, banchetti. Storie di una cultura, Milano 2015.
I. Porciani, Cibo, in "Lessico della storia culturale," a cura di Alberto Mario Banti - Vinzia Fiorino -Carlotta Sorba, Laterza, Roma-Bari 2023
F. Quellier, La civiltà del cibo. Storia culturale dell’alimentazione in Età moderna, Roma 2022