Una cattiva memoria

Last Feminism, Cancel Culture e chiamata alle armi del politically correct


Ha fatto a suo tempo discutere la decisione di HBO, storica emittente via cavo statunitense, di cancellare dal palinsesto Via col vento, capolavoro che Victor Fleming diresse nel 1939 consacrando nell’immaginario collettivo la Rossella O’Hara dell’allora semisconosciuta Vivian Leigh. Prima di dare un’occhiata ai motivi che hanno portato la dirigenza della rete a fare questa scelta vale la pena ricordare cosa ha rappresentato HBO fin dalla sua fondazione nel 1972: una piattaforma controcorrente in cui fruire di prodotti televisivi irriverenti, senza censure su temi come sesso, famiglia, società e showbiz americano. Dalle stand-up comedy politicamente scorrette a serie come Sex and the city che negli anni ’90 sdoganò modelli femminili e maschili di rottura rispetto a quelli tradizionali, HBO si è fatta paladina di racconti alternativi, controversi, in grado di narrare la realtà anche nei suoi aspetti più pruriginosi e sgradevoli, quelle contraddizioni e piccolezze che altre emittenti preferivano nascondere sotto a un tappeto di sani valori e storie in grado di incarnare ancora il sogno americano.

Colpisce così che la rete produttrice di Trono di spade o I Soprano, abbia deciso di eliminare dalla propria offerta un film come Via col vento, otto premi oscar fra cui quello a Hattie McDaniel, prima attrice afroamericana a vincere la statuetta per l’interpretazione di Mami, perché in contrasto con i valori dell’America contemporanea, ormai lontana da certe rappresentazioni discriminatorie e razziste della popolazione nera, senza pregiudizi, inclusiva.

Quella decisione, poi convertita in un reinserimento del film introdotto da un’ampia spiegazione sull’America di allora, è risultata essere un rimedio peggiore del male per aver cancellato di netto due elementi di grande valore presenti nel film: la performance già citata di McDaniel che nell’interpretare con talento una schiava nera nella Georgia della guerra civile americana aveva vinto un Oscar (fatto non di poco conto in un contesto in cui, trent’anni dopo, Martin Luther King veniva assassinato e la lotta degli afroamericani contro le discriminazioni subite era ben lungi dal concludersi) e il premio a Vivien Leigh per aver reso iconico il personaggio di Rossella O’Hara, donna di molti vizi e poche virtù che si ritrova a fare il bene  più suo, con se stessa come unico motore ed obiettivo di ogni azione.
Ciò non significa che quella narrazione non presenti dei punti nevralgici. L’immagine distorta e denigratoria dei personaggi neri pervade la pelllicola.
Il punto è: siamo sicuri che oscurarne la visione, cancellare un film, un libro, un personaggio storico od ostracizzarne uno vivente perché al centro di un’inchiesta non sia una risposta ipocrita e bigotta a quell’ipocrisia e quel bigottismo contro cui ci si scaglia? 


George Orwell in 1984 descriveva la pratica di cancellare e riscrivere le notizie di cronaca a seconda del bisogno, come una delle forme più efficaci di sottomissione da parte del Grande Fratello. In quest’opera continua di manipolazione e riscrittura dei fatti recenti si andava dissipando il senso della Storia nella sua interezza. Se tutto era incerto, allora niente più contava, a partire dal passato.
Così Orwell metteva in guardia dalle pratiche di cancellazione anche dei fatti più vergognosi o scomodi perché  un popolo senza storia, senza memoria di sé, si piega a tutto. 


Per questo è impressionante l’ondata di ortodossia che ha investito ogni campo, dal cinema ai classici della letteratura, da un uso del linguaggio che in nome dell’inclusività più che cucire taglia.

Non è dal niente che è spuntata la lettera inviata nel 2020 ad Harper’s Magazine da un cospicuo numero di intellettuali e personalità della cultura fra i quali spiccano i nomi delle scrittrici Margareth Atwood, Loretta J. Ross e Rebecca Goldstein e che denuncia la progressiva restrizione di ciò che si può esprimere senza paura di essere cancellati dall’opinione pubblica per rappresaglia.
Non si tratta del banale “Signora mia non si può più dire nulla” che ha polarizzato la discussione in Italia anche in tempi recenti. Atwood, Ross e Goldstein appartengono a categorie sociali ampiamente marginalizzate nella corso della Storia. Nell’opporvisi hanno scelto però di far emergere il più possibile le scomode contraddizioni della società in cui viviamo perché, citando dalla lettera, “il modo per sconfiggere le cattive idee è attraverso la loro esposizione, l’argomento e la persuasione, non cercando di metterle a tacere o spingendole via” dal dibattito come se non esistessero o non ci fossero mai state.


Fa riflettere il fatto che le posizioni a sostegno di un repulisti generale arrivino proprio dalla parte più giovane e social della quarta ondata femminista.
Dopo l’uscita della sua ultima  pubblicazione in merito alla violenza di genere, Carlotta Vagnoli si è pubblicamente scusata per aver riportato senza censura gli insulti razzisti rivolti a Carola Rackete. Secondo chi l’ha messa alla gogna su Instagram (dove Vagnoli ha il bacino d’utenza che l’ha resa a tutti gli effetti un’influencer) l’autrice avrebbe dovuto censurare la cosiddetta n-world per evitare di turbare i lettori razzializzati, cioè coloro che subiscono pregiudizi ed abusi a causa dell’etnia di appartenenza. Poco è valso il fatto che quella parola non fosse stata usata da lei, ma citata testualmente da post comparsi su Facebook proprio per denunciarne la gravità. La censura era doverosa. Cancellarla un atto di giustizia.

Mettendo da parte gli insulti, sono molte le parole che all’interno dell’attivismo femminista intersezionale non possono essere più usate salvo essere coperte da barre, puntini, asterischi. Ne è un esempio il divieto di usare termini come obesità, secchezza, sovrappeso, sottopeso, grassezza, magrezza all’interno delle communities che si occupano di grassofobia e fat acceptance. Se si parla di disturbi del comportamento alimentare (da preferire ad anoressia e bulimia spesso utilizzate per schernire, quindi snaturate rispetto alla corretta destinazione d’uso) occorre inserire prima un trigger warning, l’avviso che il contenuto potrebbe risultare indigesto a chi ha a che fare con queste problematiche.

Sembrerebbero mode da social, vezzi delle giovani generazioni che si oppongono anche col linguaggio alle mancanze dei boomers e del loro pensiero ristretto. Può darsi. Tuttavia andrebbe tenuto sott’occhio il modo in cui la Cancel Culture possa insinuarsi nella memoria collettiva senza rumorose esagerazioni e titoloni dei giornali.

In Italia la Cancel Culture pare sia approdata in una accezione diversa rispetto a quella diffusa negli States e in cui l’ostracismo riguarda più i personaggi pubblici che le opere d’intelletto. Eppure è qui che in tempi non troppo lontani Asia Argento è stata immediatamente rimossa da un programma televisivo a seguito di accuse di violenza sessuale che non solo non si sono mai trasformate in una denuncia formale, ma hanno invece fruttato la temporanea visibilità mediatica al suo accusatore. 
Piccola cosa forse, che alla fine non ha causato la cancellazione di Asia Argento dai palinsesti di altre emittenti. In fondo l’Italia non è l’America. 

Sono però italiani quelli che hanno imbrattato la statua di Indro Montanelli a Milano invocando anche la rimozione di ciò che ha prodotto come giornalista in tutta la sua carriera. Ma se gli fosse stato impedito di comparire in tv e di raccontare della sua esperienza in Africa con sciagurata nonchalance, avremmo oggi il video in cui Elvira Banotti lo svergognò per lo stupro ai danni di una bambina eritrea?


La Storia è disseminata di colpevoli omissioni e il presente non ne è immune. Siamo sicuri di volerle combattere con colpi di spugna?