Sui lavori senza senso

di Marco Giovagnoli


Alcuni anni fa, all’antropologo sociale David Graeber, uno dei massimi scienziati sociali contemporanei (purtroppo prematuramente scomparso), di solido impianto anarchico, venne chiesto dal Direttore della rivista radicale Strike! un intervento ‘provocatorio’. Graeber approfondisce una sua riflessione su tutta una categoria di impieghi che, visti dall’esterno, sembrano privi di scopo e che, nella tesi dell’articolo, sembrano davvero superflui e chi li svolge ne è in qualche modo consapevole. Buona parte di questi lavori è, tra l’altro, anche ben retribuita.
L’articolo suscita grande scalpore e anche critiche ma inaspettatamente fa giungere al suo Autore una enorme mole di testimonianze, da tutto il mondo, di persone che confermano di svolgere impieghi di tale natura; l’articolo viene tradotto in moltissime lingue e diversi sondaggi internazionali costruiti sul testo rivelano che una percentuale di rispondenti tra il 35 e il 40% effettivamente dichiarava di svolgere un ‘lavoro del cavolo’.
Il libro che Graeber decide di scrivere raccogliendo tutta questa enorme mole di testimonianze e di darne una sistematizzazione coerente e scientifica viene appunto intitolato Bullshit Jobs. Il ragionamento svolto da Graeber è estremamente affascinante e a volte complesso ma, come tutte le proposte intellettualmente eccitanti, si presta a numerosissime riflessioni e itinerari divergenti.
La definizione di partenza è la seguente: “per lavoro senza senso si intende un’occupazione retribuita che è così totalmente inutile, superflua o dannosa che nemmeno chi la svolge può giustificarne l’esistenza, anche se si sente obbligato a far finta che non sia così”.
La lista dei lavori (che Graber individua soprattutto a partire dalle testimonianze raccolte) è apparentemente infinita e comincia con professioni come ‘consulenti per le risorse umane’, ‘coordinatori della comunicazione’, ‘ricercatori del settore delle relazioni pubbliche’, ‘strateghi finanziari’, ‘legali d’azienda’ e “quel tipo di gente (ben rappresentato in ambito accademico) che trascorre il tempo a costruire assurde commissioni per discutere il problema delle commissioni inutili” (ci torneremo).
Ma l’elenco si inoltra poi in un gran numero di occupazioni della contemporaneità generate sia nel settore pubblico sia – lo sottolinea molte volte Graeber – ampiamente nel settore privato (anche se vulgata vorrebbe che ve ne siano soprattutto nel pubblico), che vengono poi raccolte sotto cinque macrocategorie: i tirapedi (quelli che esistono solamente o principalmente per far sentire importante qualcun altro); gli sgherri (metaforico, persone il cui lavoro presenta una componente di aggressività ma che esistono soltanto perché altri le impiegano); i ricucitori (dipendenti che esistono solo per un difetto o una mancanza nell’organizzazione e sono lì per un problema che non dovrebbe esistere); i barracaselle (dipendenti che esistono solo o principalmente per consentire ad un’organizzazione di affermare di stare facendo qualcosa che in realtà non sta facendo); i supervisori (sono del tipo 1: coloro il cui ruolo consiste unicamente nell’assegnazione di lavoro agli altri; e tipo 2: coloro la cui funzione principale è creare mansioni senza tempo da far svolgere ad altri, sovraintendere all’insensatezza o addirittura inventare lavori senza senso totalmente nuovi).
Forse la realtà è ancor più complessa di queste cinque categorie (a volte si può essere iscritti a più di una di esse), e altrettanto probabilmente la consapevolezza di svolgere una mansione inutile si palesa (come nel caso delle testimonianze raccolte da Graeber), viene dissimulata nella coincidenza ontologica tra singolo e istituzione (il mezzo si confonde con il fine), può diventare anche una bandiera da sventolare in faccia ad altri (“non faccio niente di utile e mi pagano lo stesso”), ma scorrendo le pagine ci si convince abbastanza che la maggior parte delle persone preferirebbe fare qualcosa di piacevole ed appagante, se messa in condizione di farlo.
Può darsi che una parte di esse non abbiano come orizzonte l’utilità sociale del proprio agire (ricorre spesso la figura del ‘poeta’) e dunque la liberazione dal lavoro inutile non si tradurrebbe in un ‘ottimo sociale’ in cui ciascuno opera per far funzionare effettivamente meglio la società (come ad esempio “installare pannelli solari”); ma il ragionamento di Graeber è che la quota di attività per così dire ‘espressive’ rimpiazza comunque lo svuotamento di quelle ‘del cavolo’, che – ricordiamolo sempre – spesso sono anche dannose.
Insomma l’equilibrio sociale si automantiene anche al di là dell’esistenza di ‘pianificatori sociali’ (forse un altro bullshit job?). Anche perché la comune insistenza sulla centralità del lavoro e sulla sua creazione, da destra e da sinistra, poco o nulla si occupa del fatto che quel lavoro deve avere uno scopo utile, al di là della santificazione del top manager o del riempitore di buche.
In un passaggio secondo noi molto significativo, emerge come nella società contemporanea, fondata sulla pervasiva presenza di bullshit job, si inneschi un conflitto tra i rappresentanti di questi ultimi e le due categorie ‘marginali’ di chi fa davvero lavori utili per la società e chi non svolge alcun lavoro retribuito: quante volte l’élite culturale ed economica a guardia dell’ordine sociale neoliberista ha aizzato l’opinione pubblica dal pulpito dei suoi potenti mezzi di comunicazione contro gli scioperanti nei servizi pubblici (utili) o contro i fannulloni percettori indebiti di redditi sociali?
Una riflessione (personale) che ci tormenta tuttavia leggendo questo libro riguarda la possibilità – temuta – che anche lavori di senso come quello in ambito accademico (o della educazione in generale) vivano ad ‘intermittenza’ momenti di assoluto non senso. Come non leggere in diversi passaggi delle preoccupate autoriflessioni di uno che nell’Università ci ha creduto fino in fondo, come David Graeber, sprazzi della nostra stessa esperienza quotidiana?: “gli amministratori universitari hanno in pratica fatto un golpe […] Adesso è normale per le principali Università presentare ‘documenti sulla visione strategica’ che a stento menzionano il sapere e l’insegnamento ma si dilungano invece sull’‘esperienza dello studente’, sull’‘eccellenza della ricerca’ (detto altrimenti, come ottenere finanziamenti), sulla collaborazione con il mondo degli affari o il governo e così via”; è indubbio che molti di noi si sentano, in particolari momenti della giornata o dell’anno dei barracaselle: “i posti di barracaselle esistono perché, all’interno delle grandi aziende [qui leggi anche: Università], spesso sono ritenute più importanti le pratiche che attestano che alcune azioni sono state intraprese delle azioni stesse; è la ‘cultura dell’adempimento’, per usare la felicissima espressione di Rossano Pazzagli.
E ancora: “quelli di noi che ancora sgobbano nelle fabbriche accademiche e che ancora amano ancora considerarsi insegnanti e studiosi hanno imparato a temere l’aggettivo “strategico” […] o ancor peggio “documenti di visione strategica” [perché significa] “costringere docenti e ricercatori a trascorrere sempre più tempo a quantificare e giustificare quello che fanno e sempre meno tempo a farlo davvero. La stessa diffidenza vale per qualsiasi documento che utilizzi ripetutamente i termini ‘qualità’, ‘eccellenza’, ‘leadership’ o ‘stakeholder’” (tutti termini di origine aziendalista, tra l’altro).
L’idea che la cultura del lavoro senza senso colonizzi – se pur momentaneamente e saltuariamente – anche le attività socialmente utili o soggettivamente appaganti è, secondo noi, preoccupante, un cedimento alla logica bullshit di cui molti si rendono conto senza aver tuttavia forza (o voglia) di reagire.
Un ultimo cenno fa fatto alla conclusione ‘pratica’ di Graeber – ampiamente controvoglia per sua stessa avversione nel “suggerire politiche” – per una, e sottolineiamo una, possibilità di eliminare i lavori del cavolo dalla società: il reddito minimo universale, assicurarlo a tutti (dice Graeber: davvero a tutti), separare il sostentamento dal lavoro, rimettere la felicità al centro della società (chi non sceglierebbe, non avendo più la preoccupazione del proprio sostentamento, di andare ad interpretare geroglifici Maya al posto di sanzionare un disoccupato perché si è presentato tardi al seminario sul redigere curriculum per trovare lavoro?).
Poi, chi vuole, può darsi da fare per guadagnare ancora qualcosa di più, ma liberato dal vincolo della necessità.
Utopia anarchica? Forse sì, se si gioca nel campo attualmente delimitato; forse no, se si pensa a ridefinire campo e regole, ad esempio sulla generazione della ricchezza. Ma il tema è davvero complesso: buono forse per un ulteriore numero, sulla liberazione universale dalla necessità.

Consigli di lettura: ovviamente Bullshit Jobs, di David Graeber (Garzanti, Mi 2018) e, sulle ‘inferenze per la politica” finali, il libretto (diremmo ‘più timido’ di Graeber, ma molto stimolante) di Federico Chicchi e Emanuele Leonardi Manifesto per il reddito di base, (postfazione di Marta Fana e Simone Fana), Laterza, Bari-Roma 2018