I beni comuni tra inquadramento dogmatico e disciplina giuridica

di Fiore Fontanarosa*

Negli ultimi anni la discussione concernente i beni comuni si è sviluppata in diversi ambiti, in particolare in ambito economico e nel contesto giuridico.
Il dibattito in materia ha ricevuto uno slancio fondamentale dopo la pubblicazione, nel 1968, dell’articolo diHardin dal titolo ‘The Tragedy of the Commons’[1]; dibattito rinvigorito dalla successiva comparsa, nel 1968, del saggio di Heller sulla ‘tragedia degli anticommons, ovvero dei beni privati[2]. La “tragedia dei comuni” fa riferimento al problema dell’esaurimento delle risorse derivante da un eccessivo consumo individuale di beni accessibili a tutti, mentre la “tragedia degli anticommons” si riferisce alle esternalità negative prodotte dalla privatizzazione dei beni comuni, che ne causerebbe un loro sottoutilizzo.

Il conferimento, nel 2009, del Premio Nobel per l’economia alla studiosa E. Ostrom per le sue ricerche sui commons, ha nuovamente riacceso la discussione in materia. In particolare, la categoria dei beni comuni è stata spesso richiamata negli studi compiuti in materia di proprietà collettive, talvolta utilizzando queste due categorie proprietarie in maniera speculare.
Tuttavia, i ‘Common Property Rights’, esistenti in molti Paesi asiatici, africani, ecc., a dispetto della locuzione impiegata (commons), condividono, in buona sostanza, le caratteristiche insite nelle nostre proprietà collettive; in pratica, la locuzione “comune” deve essere intesa nel senso di “collettivo”, cioè di un bene che è “comune a più persone” (quest’ultime pur sempre determinate  o determinabili), non di un bene open access, vale a dire accessibile a tutti indistintamente, nozione che nel nostro ordinamento corrisponde piuttosto al concetto di bene pubblico.

In effetti, nei beni comuni, detti anche ad accesso aperto, nessuno ha il diritto di escludere altre persone dal loro utilizzo, mentre nella proprietà collettiva i membri del gruppo possono estromettere, dall’utilizzo del bene, coloro che non fanno parte di quella determinata collettività.
Pure E. Ostrom ha sottolineato, nei suoi scritti, la confusione, spesso rinvenibile nella letteratura internazionale, tra il regime di common property e quello di open-access. Secondo la studiosa, per “common property” non deve intendersi la proprietà ad accesso aperto, bensì quella in capo ad una collettività determinata di persone[3]; categoria proprietaria che nel nostro sistema giuridico si identifica con la proprietà collettiva (e non con quella pubblica).

La categoria dei beni comuni è stata inizialmente forgiata dalla dottrina nel contesto della proprietà, segnatamente quella collettiva, ma poi essa è trasmigrata al di fuori dell’ambito proprietario ed è stata utilizzata al fine di designare beni di primaria importanza per la vita delle persone, anche nell’ottica di offrire una tutela giuridica a beni la cui fruizione viene, sempre più frequentemente, messa in discussione dall’evoluzione della società.

Nonostante lo sforzo di una parte della dottrina nell’elaborare una categoria costituita da beni considerati fondamentali per la vita umana, resta ancora irrisolta la questione della loro esatta individuazione. In effetti, questa categoria sarebbe composta da beni alquanto eterogenei tra di loro: l’aria, l’acqua, la flora, la fauna, le proprietà collettive, i beni culturali, archeologici e ambientali, i beni confiscati alla criminalità organizzata, il diritto alla vita, la conoscenza in rete (internet), ecc[4]. Come si vede, dunque, vi rientrerebbero non soltanto beni aventi una consistenza materiale, bensì pure quelli dotati di una valenza immateriale.
La natura aperta della citata categoria di beni, unitamente al problema della esatta identificazione di essi, comporta dei problemi sotto il profilo giuridico, soprattutto per quanto concerne l’individuazione di una normativa (uniforme) loro applicabile. 

Del resto, nel diritto di fonte legislativa non v’è menzione della “emergente” categoria dei beni comuni, la quale appare più un insieme di cose, diritti e interessi considerati rilevanti dal punto di vista valoriale, che una autonoma (e unitaria) categoria sotto il profilo giuridico. In effetti, si tratta di beni, peraltro disomogenei, ritenuti “patrimonio dell’umanità” o comunque “patrimonio di tutti”, il che richiederebbe una loro tutela rafforzata da parte dell’ordinamento.   
Ma la protezione giuridica dei beni comuni (o quantomeno della maggior parte di essi) pare già rinvenibile all’interno del tessuto normativo, peraltro al livello più elevato di normazione, nel senso che la tutela legislativa di tali beni può essere rintracciata nella Carta Costituzionale, in via diretta o esegetica, nonché nella legislazione ordinaria, eventualmente ricorrendo ad una interpretazione costituzionalmente orientata di quest’ultima.     

In conclusione, i problemi nel redigere un elenco esaustivo dei beni comuni, quale conseguenza delle difficoltà definitorie, in buona parte connaturate all’utilizzo della locuzione in discorso, non ha agevolato, a nostro avviso, il percorso verso l’emersione di una vera e propria autonoma (e ben definita) categoria giuridica, sistematicamente inquadrabile all’interno del panorama normativo.


[1] G. Hardin, The tragedy of the commons, in 162 Science, pp. 1243 ss. (1968).[2] M. Heller, The Tragedy of the Anticommons: Property in the Transition from Marx to Markets, in 111 Harv. L. Rev., pp. 621 ss. (1998).[3] E. Ostrom, C. Hess, Private and Common Property Rights, in Encyclopedia of Law & Economics, Northampton, 2008, pp. 6 ss., consultabile al sito http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1304699

[4] Cfr. Commissione Rodotà - per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici (14 giugno 2007) – Relazione.