Madre e figlia, nel segno delle api!

di Anna Kauber

Sono dentro a una densa nuvola ronzante di api al lavoro. Instancabili le operaie della popolosa famiglia dell’arnia stanno provvedendo alla bottinatura. Saccheggiano il nettare dei fiori qui attorno: è primavera, e la casa di Armanda, in un trionfo di colori e forme, è sepolta dalle piante. Dopo l’orgia inebriante dentro la corolla, le api hanno riempito le cestelle delle zampette posteriori dei granuli pollinici rimasti attaccati al corpo e finalmente rientrano.

Lo zoom della videocamera mi spalanca a una ricchezza particolari visti solo sui libri e nelle foto. La pallotta gialla aggrappata alle zampe dell’ape è enorme: mi delizia il contrasto cromatico con il colore brunito dell’insetto peloso. Vedere la fatica della piccola creatura che atterra davanti alla fessura d’ingresso della sua arnia – stremata dal peso pazzesco del suo prezioso bottino – mi inonda di una strana empatia che mi rende allo stesso tempo allegra e intenerita. Che coralità d’azioni, così superbamente calibrate sulle regole primigenie della procreazione e della sopravvivenza. Le ferree esigenze collettive determinano ogni loro gesto ed è spaventevole e mirabile pensare alla loro genetica impossibilità di fare altro, di scegliere per sé un differente destino (e quale?), l’ordine o il disordine, l’ubbidienza o la trasgressione: solo noi Homo sapiens, in questo magnifico Mondo, possiamo decidere. Un abisso di autodeterminazione che ci libera e vincola allo stesso tempo. “Fa’ la cosa giusta”: tutto qui, sembrerebbe facile per noi. Ma non siamo le api e quel giusto non sappiano quasi mai cos’è.

Non avendo moto proprio, il polline ha bisogno di essere trasportato: se ne incaricano il vento, di rado l’acqua, e le api mellifere. Nell’apiario di Armanda ho la fortuna di assistere a distanza ravvicinata al rito antichissimo collegato alla riproduzione delle piante e, di rimando, a un evento che ci riguarda direttamente. Ne sono rapita e non mi allontanerei più. Una di loro tenta di assaggiarmi, ma per fortuna non trova varchi nella tuta integrale (tuta gialla!) che mi protegge. Resto tuttavia dell’idea che non volesse pungermi, ma solo testarmi un po’, per vedere se fosse il caso di danzare. Niente da segnalare, care compagne: questa roba non è affatto zuccherina.

Armanda è una donna carismatica, molto forte. La ricordo da giovane, bellissima, un gran manto di capelli lunghi e ricci. L’ho rincontrata dopo più di trent’anni e ancora mi hanno colpito i suoi occhi. Lo stesso sguardo di allora – intensissimo – ora acceso dal fuoco di una bruciante passione. Nel 1989 lei e il marito Emilio – che teneva qualche arnia nel podere di famiglia vicino a Colorno – hanno acquistato a Santa Lucia una casa-torre inserita in un gruppo di edifici abbandonati e diroccati, dove all’epoca non abitava anima viva. Era l’ultima in fondo alla sterrata che percorre la dorsale dello stretto rilievo collinare. La strada continua a non essere asfaltata, mentre oggi le abitazioni sono state ristrutturate e la compagnia di altri esseri umani più o meno stanziali ha tolto la coppia dal suo eremitaggio.

Armanda vanta nonni contadini, ma il richiamo della terra è cresciuto con gradualità. Con Emilio e le bambine ha iniziato a spostarsi in campagna ogni fine settimana. Un’abitudine divenuta essenziale, il desideratissimo momento di vita familiare libera, armonica, rallentata. Appena scesi dall'automobile, ognuno volava alle sue attività e ai giochi preferiti, tutti a contatto con la natura. L’amato ritiro fuori città consentiva a ciascuno di ri-trovarsi, con gli altri, a fine giornata, nei racconti, nelle risate e nelle confidenze della casa. Con rigore e grande dirittura morale – dopo anni di continuo e serio lavoro amatoriale con le api e la terra – nel 2009 Armanda diventa apicoltrice. La dotazione di 200 arnie del 1989 è salita alle circa 500 attuali, disseminate in svariate postazioni scelte in ragione delle specifiche fioriture. Peccato non poter dire altro di quei luoghi: i furti in apiario sono amaramente all’ordine del giorno.

L’apiario si trova a metà della scarpata sotto casa ed è letteralmente immerso in un numero e in una varietà di piante sorprendente. Mi concentro su uno dei tanti grossi rosmarini presi d’assalto da un’orda di api scatenate: sembrano in preda a una specie di follia bulimica, un’ebbrezza dionisiaca che tutto sommato credo di capire.
Cerco l’inquadratura. Il cespuglio in fiore, lo stato d’alterazione degli insetti, sullo sfondo una valletta coltivata, pezzature verde tenue alternate ad altre di sola terra arata, elegantissimo nudo marrone, chiaroscurato. Sull’altura di fronte, la cortina di cupo smeraldo dei boschi di castagno. Ma la vera primadonna di quella pacata composizione è l’unico albero presente: un grande melo fiorito. Se la verticalità del suo tronco esalta l’andamento mosso del terreno circostante, la nuvola bianca della chioma pare galleggiarvi: complice la sua consistenza rarefatta (si riconosce essere formata da mille macchiette chiare sovrapposte che rendono l’immagine di vibrante profondità), come un palloncino pare muoversi sospinta dal vento. Ma come abbiamo potuto rendere la pianura di Parma quel desolante quadro d’inaudita piattezza che vediamo? Un simile evento miracoloso può capitare da noi ormai solo in collina o in montagna.
L’albero solitario è una gioia per gli occhi e per lo spirito: e che Dio benedica quei contadini (forse quelle generazioni di contadini) che non hanno avuto il cuore di tagliare il melo di Santa Lucia!

Benché difficile da credere, sia per l’attuale stato di grazia e vitalità sia per la condizione di buona conservazione generale del paesaggio, quando Armanda ed Emilio hanno comprato la casa tutta la ripa era spoglia ed erosa dall’incuria e dal tempo. Sul suolo insterilito dai diserbanti vivevano a stento rade sterpaglie. Raggiungendo l’azienda, tuttavia, nell’alternanza di campi coltivati, prati permanenti e, più in alto, boschi di castagni, avevo notato alcune chiazze semi-desertiche. Coltivi abbandonati, il cui terreno intossicato non consentiva nemmeno l’attecchimento della vegetazione spontanea. Per ridare vitalità alla terra – accelerando il tempo della sua autonoma rigenerazione – serviva l’intervento riparatore dell’uomo: così Armanda ed Emilio hanno restituito quello che altre mani avevano tolto. In venticinque anni hanno ricreato un paesaggio, rigoglioso e vario.

La prima pianta è stata l’alloro, seguita ogni anno da nuove essenze, quasi tutte scelte in funzione delle api. Quando anche le specie spontanee hanno ripreso a colonizzare la ripa, Armanda ed Emilio hanno capito che la terra si era risanata. In primavera vi ho visto un mare di iris in fiore, i vecchi spadoni del podere di campagna che Emilio ha traslocato a Santa Lucia. Il nuovo corredo botanico richiama e alimenta insetti, uccelli e piccoli animali. La terra spoglia della costa non è più spazzata dal vento e l’acqua non erode più la superficie. In quella zona facile alle frane, il suolo è ora consolidato dall’intrico delle radici. Già nell’avvicinarsi si riesce a distinguere la proprietà. Nell’omogeneo paesaggio collinare la ‘costa delle api’ si presenta inaspettata, esuberante di colori, forme e profumi. E di insetti, è evidente.

Senza risparmio di fatica, senza compromessi e concessioni a scappatoie semplificatrici, Armanda cura ogni aspetto dell’intera attività. Non smette di studiare e informarsi, si occupa di divulgazione tenendo corsi e seminari, fa ricerche di mercato e si inventa sbocchi produttivi e metodi di lavorazione, suscitando maggiore attenzione e reazioni positive nelle colleghe (le donne sono più intraprendenti, più fantasiose, più partecipi). Diversifica e sperimenta, ma soprattutto tesse la rete dei rapporti fra i piccoli agricoltori, i consumatori più sensibili e lei.

E’ convinta che la realtà dei primi (di scarso peso economico e politico) possa sostenersi solo grazie alla collaborazione, all’impegno in prima persona per promuovere una filiera condivisa e organizzata. Così è attiva in varie associazioni: ha forse la necessità, derivata anche dalle sue convinzioni politiche, di dimostrare che anche fra coltivatori – spesso diffidenti gli uni degli altri – è possibile superare le barriere dell’invidia e della sterile competizione.

Dopo tutti questi anni Armanda ancora non si accontenta: la sua nuova frontiera è il polline fresco e – chissà – la cosmesi, se qualcuna delle figlie vorrà darle una mano in azienda. Pare comunque inesauribile la sua capacità professionale e di elaborazione dell’esperienza pratica. Assomiglia alle api delle sue arnie: stessa la tempra, uguale la tenacia, identica la perseveranza.
 
Dieci anni dopo
Nel 2013 realizzai il documentario “Ritratti di donna e di terra”, ricerca di genere nel mondo dell’agricoltura. Le testimonianze qui presenti, insieme con le numerose altre raccolte nelle mie esperienze di approfondimento delle realtà lavorative rurali e delle memorie relative, sono confluite nel libro “Le vie dei campi” (Maestri di Giardino Editori,2014), da cui è tratto questo racconto.

Dieci anni fa il sogno di Armanda ed Emilio era di portare tutte e tre le figlie, se lo avessero voluto, in azienda. Il lavoro procedeva benissimo e la produzione, distribuita su un sempre maggior numero di arnie dislocate fra collina e pianura, era abbondante, diversificata e di qualità.

Ma, come tutti sappiamo, le cose, per loro e su scala nazionale, sono andate diversamente.

Clima, veleni, piante in sofferenza e, conseguentemente, flussi nettariferi sballati: così muoiono le api rustiche e anche con quelle allevate, nutrite dagli apicoltori la produzione negli ultimi anni si è più che dimezzata; sono diminuite le varietà di miele e i prezzi sono (paradossalmente) calati.
E nonostante la crescita esponenziale vuoi degli allarmi, vuoi dell’utilizzo mediatico dell’ape - divenuta simbolo e garanzia per eccellenza di ‘pulizia’ ed equilibrio ambientale - “Noi apicoltori siamo stati abbandonati,” mi dice Armanda “non hanno fatto nessun investimento per l’apicoltura”.

Da sette anni in azienda è potuta entrare solo Floriana, giovane donna di 33 anni che ha preso in mano l’apiario. Fra tutte le mansioni aziendali, la cura delle api è esattamente quello che lei ama fare. Amanda segue l’amministrazione. La relazione con le api le manca, ma “Ho 67 anni, il mio fisico è diverso e, con il cambiamento climatico, lavorare fuori in estate è durissima”.
Tuttavia, quando è primavera e l’attività di apiario è incessante, ‘la mamma’ torna in scena per la raccolta del polline, che ha tempi di lavorazione rigorosi e strettissimi.
Ma ora il futuro è Floriana. Sulla base della potente trasmissione di passione e conoscenza da madre in figlia, Floriana sta costruendo una strada tutta sua di approfondimento dell'allevamento apistico su temi e specializzazioni nuovi. Amanda coglie i segnali della mutazione in corso, oltre ai quali si può forse già intravvedere quello che domani sarà l’azienda che tanti anni fa, dal niente, lei ed Emilio decisero di creare sulle colline di Santa Lucia.

L’articolo è una rielaborazione tratta da “Ritratti di donna e di terra” di Anna Kauber,  video-ritratto di Armanda Manghi “Miele e Cannella”  https://vimeo.com/102612188