La memoria come patrimonio antropologico

di Katia Ballacchino

 
“Ricordare è come un po’ morire”, ripeteva come un mantra il brano di Morricone, colonna sonora della straordinaria pellicola di Tornatore “Una pura formalità” del 1994, che celebra il complesso processo del ricordare, semplificando mirabilmente la potente e spesso inquieta forza che accompagna l’emergere della memoria individuale.

La memoria è sempre stata elemento distintivo dell’uomo, come individuo e membro di un gruppo sociale, portatore di valori culturali, ma le modalità del ricordare sono mutate profondamente, col passaggio dall’oralità alla scrittura e, poi, dalla memoria individuale a quella collettiva. Connerton (1999) si riferiva alla memoria come una facoltà culturale individuando il valore delle tradizioni; nelle dimensioni comunitarie, infatti, la trasmissione intergenerazionale della memoria culturale si costruisce selezionando gli elementi valoriali in cui gruppi e istituzioni si riconoscono.

Si impara a ricordare fin dalla nascita tramite un apprendistato che passa per l’acquisizione del linguaggio, l’interiorizzazione del pensiero e la condivisione di momenti commemorativi privati e pubblici. La memoria è parziale e incompleta perché selettiva in base al punto di vista dell’individuo o del gruppo che la tiene in vita; e attraverso la memoria si veicola il rapporto tra soggettività individuali – collettive e il passato ritenuto identificante e creatore di senso di appartenenza.

Dalla fine del 1800 con la svolta autobiografica (Iuso 2018) la memoria è divenuto un oggetto di studio per diverse discipline, da quelle psicologiche a quelle storico-sociali, fino al più recente paradigma multidisciplinare (Di Pasquale 2018), che analizza il suo uso politico e che guarda alla memoria come strumento di potere, così come avviene in antropologia che ne studia anche il valore in termini di patrimonio culturale materiale e immateriale. E dall’incontro tra le scienze psicologiche e quelle storico-sociali sorgono i Memory Studies, connettendo la riflessione ai temi della libertà di espressione, delle politiche comunicative, del patrimonio, delle celebrazioni memoriali, della ricostruzione del passato e della storia.

Per l’antropologia la memoria è anche un oggetto che determina e condiziona il metodo di ricerca etnografico e i suoi stessi prodotti scientifici. Dei (2004) nella sua sintetica ma densa rassegna di studi antropologici sulla memoria, segnala il ruolo politico della storia e dell’antropologia perché inevitabilmente coinvolte nei processi sociali di costruzione della memoria nel discorso pubblico, in quanto produttrici esse stesse di resoconti sul passato, sulla tradizione, sull’identità culturale.
L’uso della memoria, la sua funzione, le sue forme sono eterogenee e molteplici, dipendono dai contesti storici e culturali, dai paesaggi materiali, dagli orizzonti simbolici nei quali le persone sono immerse. Pertanto – spiega Di Pasquale (op. cit.) nel suo volume di antropologia della memoria – occorre intendere le memorie al plurale, così come avviene con le nozioni di identità e cultura, per analizzare le manifestazioni dei meccanismi del ricordare e guardare ai ricordi come fatti culturali.

Dagli anni Ottanta l’antropologia della memoria si è dedicata allo studio del patrimonio e del ricordo, utile oggi per indagare la cosiddetta Cancel Culture collocandola non solo nel dibattito massmediale americano in cui è nata, ma analizzandola più globalmente nella dimensione storica dei discorsi egemonici. Emerge così il tema delle memorie divise, delle eredità scomode, dello sguardo egemonico in rapporto alle istanze dei subalterni. La Cancel Culture analizzata attraverso lo sguardo dell’antropologia della memoria riflette sulle contestazioni che rimuovono dagli spazi pubblici gli individui e le istituzioni che avallerebbero azioni e valori contrari ai diritti delle minoranze e all’uguaglianza più in generale.
La memoria, dunque, diviene uno degli strumenti di potere più proficui per avviare l’identificazione e il riconoscimento identitario. Nella storia l’affermazione del potere da parte dei regimi ha spesso utilizzato lo strumento della negazione della memoria; attraverso il suo controllo molte dittature hanno compiuto manipolazioni delle identità nazionali, imponendo e rappresentando valori, istanze e presunte verità su cui creare consenso, fabbricando strategie di autolegittimazione del moderno Stato-Nazione. E quel che sta accadendo in questi tragici giorni di conflitto tra Russia e Ucraina è purtroppo un drammatico esempio di come le ragioni della guerra e della sopraffazione possano basarsi su rappresentazioni retoriche distorte della storia e della memoria nazionale, riducendo e banalizzando la complessità al prezzo enorme e insostenibile della violenta perdita di vite umane.

Bibliografia
Connerton, P., Come le società ricordano, Armando Editore, Roma 1999.
Dei, F., Antropologia e memoria. Prospettive di un nuovo rapporto con la storia, Novecento, 10, 2004 [2005], pp. 27-46.
Di Pasquale, C., Antropologia della memoria. Il ricordo come fatto culturale, il Mulino, Bologna 2018.
Iuso, A., La svolta autobiografica. Infanzia e memoria nell’Ottocento italiano, Cisu, Roma 2018.