Gli animali non esistono

di Nicoletta Moschini

Potremmo affermare che gli animali, nel loro senso pieno e autentico, (quasi) non esistano più. Abbiamo cancellato la loro presenza dalla nostra coscienza collettiva e dall’ambiente, arrivando a dimenticare di essere noi stessi animali, creature tra creature. Certo, sono ancora intorno a noi, ove si limitano ad essere senza esistere, relegati a meri ingranaggi funzionali, come se il loro valore dipendesse unicamente dal ruolo che possono rivestire per l’animale umano, in un rigido sistema di gerarchie antropocentriche. Tutto ruota intorno a criteri da noi stessi definiti ed autoriferiti di utilità e intelligenza, come suggerisce con uno sguardo sottile il botanico Stefano Mancuso.

Già Rousseau osservava come la società fosse sorta dai primi recinti e dalle prime barriere, distinzioni nette tra “mio” e “tuo” che si sono erette al di sopra dello stato di Natura, fino a decretare quali esseri esistono e quali, al contrario, smettono di farlo. Così, oggi, abbiamo dato vita a un’infinità di invisibilità, una spaventosa vastità fatta di esclusione silenziosa. “La negazione si esprime soprattutto attraverso l’invisibilità”, ricorda Melanie Joy, e quel sistema, impregnato di invisibilità, si è diffuso ovunque, sovrapponendosi a ogni immaginario animale e dividendo in modo spietato la scala del vivente.

 

 Esiste una precisa gerarchia, pensata e voluta dagli animali umani, basata su vari livelli che definiscono il grado di invisibilità. In posizione apicale troviamo gli animali da reddito: quelli che esistono solo per uno scopo preciso. Lo scopo siamo noi, il nostro nutrimento, il nostro abbigliamento, le nostre cure. Questi animali, nel loro esistere, vivono una vita ridotta, quasi da spettri di sé stessi, privati di dignità e autonomia. Come li definisce l’attivista e fotoreporter Jo-Anne McArthur, sono i “fantasmi del nostro sistema”, esseri incastrati in esistenze mutilate, costretti in gabbie che spesso non consentono loro neppure di muoversi, opacizzati da antibiotici, deiezioni, ferite e torture. Nella squallida metà di esistenza che li riguarda, non c’è spazio per l’amore, la gioia, l’accudimento o l’espressione più semplice delle loro emozioni in quanto esseri che esistono. Sono mere proprietà, “oggetti”, utilizzando le parole di Melanie Joy, esseri frammentati e negati, spogliati di ogni diritto e di ogni dignità, ridotti alla condizione di beni di consumo, assorbiti dal sistema come hamburger, piumini, medicinali, trucchi. Invisibili come animali, visibili come beni. È difficile fare un computo esatto di questi “oggetti”, alcune stime parlano di circa 75 miliardi di animali allevati annualmente dall’industria zootecnica ed un numero incalcolabile dall’itticoltura – loro sono gli invisibili negli invisibili in quanto i pesci vengono conteggiati non come singoli individui, ma a peso. Non esistono individualmente, per l’appunto!

 

 Vi sono poi gli animali che sembrano esistere interamente, quelli che definiamo animali da compagnia. Ma compagnia per chi? La nostra, naturalmente. Sono creature che la società ha modellato con cura per il nostro conforto. Ecco allora l’animale che, una volta “creato”, ha un nome, una sembianza e un ruolo. Si chiama “Fido,” “Napoleone,” “Gherardo” – figure pronte a riempire i vuoti delle nostre vite, a colmare silenzi e malinconie. Ma anche loro esistono, come sempre, per servire un unico scopo: il nostro. Li vogliamo “ubbidienti”, pronti a rispondere ai comandi. Ritorna con forza il concetto di proprietà: l’animale è posseduto e controllato, un pronome possessivo che lo lega al “padrone” come cosa, più che come essere. L’animale da compagnia esiste dunque perché qualcuno lo possiede e lo nomina. Eppure, in questo possesso, perde la sua identità più autentica, diventa invisibile, seppur si trovi in uno scalino più basso in quella nefasta gerarchia dell’invisibilità di cui ci ha parlato molto anche Carol J. Adams. Gli vengono negate la possibilità di scegliere, di unirsi al proprio branco, di soddisfare i propri bisogni primari. È stato creato sottoponendolo a decenni di selezione morbosa che ha condotto molti di loro a soffrire di disturbi fisici invalidanti. Da lupi, a qualsiasi moda o necessità (compagnia, caccia, guardia e così via) del momento. Gli ultimi dati della LAV ci restituiscono un’immagine inquietante: 70.000 cani intrappolati nei canili, ugual numero di colonie feline. Il report di Legambiente sul 2023 ci parla di 85.000 cani abbandonati. 233 cani al giorno. 233 esseri invisibili al giorno. C’è una scala del dominio, e noi siamo al vertice. 

In un prestigioso istituto di ricerca veterinaria estero ho osservato da vicino questa contraddizione. Ho visto un ricercatore passeggiare con il proprio labrador al guinzaglio mentre si dirigeva verso il laboratorio, il luogo dove avrebbe indagato il “benessere” animale di un pollo forzato in uno spazio grande come un foglio A4, fatto crescere in modo sproporzionato ed innaturale per poi essere macellato a soli 56 giorni (contro gli 8 anni che vivrebbe in natura, come mi ricorda l’associazione Esseri Animali), selezionato per essere così pesante da non potersi reggere sulle proprie zampe, che, inevitabilmente, si spezzano. Osservo questa scena da lontano, immobile. Sospiro. Osservo silente i vari gradi di invisibilità. Penso al bias cognitivo che, come un velo sottile, cosparge il pensiero e lo offusca, in un paradosso nel paradosso che pare dissolversi, triturato nelle macine di un sistema dove il potere si perpetua nelle modalità di sempre. Riecheggiano alla mente le parole di Susan Sontag, “Nessuna classe dominante ha mai abdicato ai propri privilegi senza lottare. Penso a quanto risuonino familiari anche qui le sue posizioni femministe, in questa gerarchia del valore. E a come si ripresenti indefesso e puntuale il concetto di “essere superiore” ed “essere inferiore”.  Quale lotta migliore, mi domando, se non quella che nega giuridicamente, socialmente, culturalmente, visivamente e biologicamente l’esistenza della classe inferiore che vuoi dominare? 

 

 Ci sono poi gli animali selvatici, lungo questa scala della non esistenza, quelli che sembrano esistere davvero, ma in realtà sono mere comparse di una narrazione che vuole la Natura selvaggia, ma addomesticabile a piacimento, a seconda delle necessità attuali dell’immaginario collettivo. Questi animali, come orsi, cervi, lupi e cinghiali, esistono dunque solo in funzione dei nostri bisogni e dei nostri desideri di rappresentazione e trovano spazio nella storia in quanto simbolo di potenza e libertà o di minaccia alla nostra sicurezza e produttività, come contorno alla nostra idea di Natura, un elemento che fa da sfondo ai nostri racconti, anche delle aree fragili, ma mai in quanto esseri propri. Il dossier “vittime caccia 2022-2023” dell’associazione Vittime della Caccia mostra come in questa singola stagione venatoria i cacciatori abbiano ucciso 79 animali umani. Negli ultimi 150 anni è stata documentata una singola aggressione fatale ad un animale umano da parte di un orso, da dover approfondire ascoltando attentamente le parole di Cognetti sul tema. Ciononostante, è caccia aperta agli orsi. 

Un discorso analogo si può fare per i 469 cervi in Abruzzo che le autorità competenti avrebbero voluto poter abbattere perché minacciavano la produttività agricola. Si è deciso di fare dietrofront, sia grazie all’iniziativa congiunta della LAV, del WWF e della LNDC Animal Protection, ma soprattutto per il timore di un “danno all’immagine” della regione in caso di mattanza feroce. Come gli animali negli zoo, nei circhi, nei parchi, nei finti santuari: ci fruttano più da vivi, che non da morti. Esistono, sì, nella nostra narrazione, ma solo nel ruolo che gli abbiamo assegnato, che sia quello di simbolo o di minaccia. Quando tentano di uscire da questo ruolo, li riportiamo all’interno dei confini che abbiamo tracciato per loro. Lo sa bene l’orca, definita “assassina”, solo perché fatta prigioniera, osa ribellarsi. Me lo insegna la scrittrice Claudia Facchinetti nel suo candido Lasciami andare: quando le orche arrivarono a Genova.

 

 Infine, nell’unica scala gerarchica nella quale troviamo beneficio nell’essere gli ultimi, eccoci che splendiamo: gli animali umani, ultimi!, in quanto primi. Entriamo in società perché produciamo e, di rimando, consumiamo, in un processo vorticoso di annullamento e agire alienato. Senza produrre, non esistiamo, scomodando Marx e Weber. Siamo intrappolati in un circolo vizioso che si autoalimenta, oramai animali umani urbanizzati che si sono dimenticati di essere animali, prima ancora di essere umani. Penso alla pratica giapponese del “bagno nella foresta”, alla capacità di me bambina di gioire giocando sotto la pianta di un grande fico in piena estate con le sue foglie palmate che ondeggiavano al vento e il suo latte biancastro appiccicoso che si infilava tra pelle e pensiero. Lì, visibile, connessa alla Natura, esistevo. Oggi, sono una statistica: o sei tra chi produce, o sei fuori. Io sono fuori, ergo, non esisto.

 

 Potremmo dunque affermare che gli animali, nel loro senso pieno e autentico, non esistano più. Ecco quindi che, in un attacco di ansia e sconforto dovuto anche a questo distacco lacerante da tutto ciò che mi rendeva animale connesso visceralmente alla Natura attorno, madre che nutre ed assorbe, io stringo il mio animale domestico, Elia, che ha un nome, ma non un’identità, a me, che esisto, ma non produco. 

Lui esiste. Io esisto. 

Eppure, nessuno dei due lo sa.